Siamo le parole che usiamo.
Nella sua “Introduzione alla psicanalisi” Sigmund Freud sosteneva che “Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro”.
Erano i primi del Novecento, e il potere delle parole non è cambiato, la digitalizzazione ne ha amplificato la risonanza. Con troppa leggerezza si utilizzano modi di dire entrati nell’uso comune e non percepiti con quella valenza offensiva e discriminatoria che invece racchiudono. Quante volte, ad esempio, durante una riunione di lavoro il collega di turno inciampa in frasi poco eleganti, tra le più gettonate cito le seguenti “Non fare la femminuccia”, “Visto, quella collega così acida…si vede che non ha un uomo”, “Per essere una donna te la cavi bene”. Il repertorio è molto lungo ed in continuo aggiornamento: il più recente che ho sentito (subito!) era rafforzato da un accento antimeridionale: “La donna del sud di norma muta deve stare”.
Ho anche provato l’esperienza ‘mistica’ di far parte di una chat di soli colleghi uomini, un trionfo di doppi sensi e riferimenti sessuali. La chat in questione era monopolizzata dal classico impiegato che simpatizza con i superiori, pluripremiato con riconoscimenti economici copiosi per competenze che ai più appaiono nascoste. Beata illusoria meritocrazia!
E cosa fare in questi casi? Per la mia esperienza lavorativa le possibilità che il molestatore venga punito sono nulle. Il motivo è semplice: tralasciando l’intervento ormai inesistente dei sindacati che si limiterebbero a scrivere i classici comunicati ad impatto zero, si tratta di una forma di maschilismo particolarmente insidiosa, quasi amichevole. E quando si verifica, ci si imbatte, ahimè, nella complicità e dei colleghi/e, che minimizzano o rimangono indifferenti, e dei dirigenti che, non volendo avere noie a lavoro, fanno finta di nulla, senza mostrare empatia nei confronti di chi subisce l’offesa,puntualmente etichettata come “persona problematica” e come tale trattata.
Questa forma di maschilismo non si traduce in episodi plateali, non si percepisce così facilmente, ma si nutre di micro-situazioni che sommate alimentano un retaggio culturale distorto, che allontana l’orizzonte della parità di genere, dimenticando come la narrativa messa in gioco da un linguaggio sessista fa da volano per possibili fenomeni di violenza fisica. Eppure ci vengono propinati ogni giorno e con grande entusiasmo corsi e seminari sulle molestie in ufficio e la violenza di genere, li hanno addirittura resi obbligatori. Ma all’‘incauto’ collega maschilista medio serve molto di più per sviluppare una mentalità rispettosa dell’essere femminile.
Perché si può parlare solo di maschilismo quando, nonostante l’eco ordinario di violenze nei confronti delle donne, si continua ad utilizzare un lessico misogino, di fronte al quale non si riesce a fare scudo, per provare a smuovere le coscienze, tutti insieme, pretendendo un linguaggio educato.
E se si potesse azzerare tutto?
Magari immaginare di vivere in un film di Tim Burton, il disegnatore di mondi fantastici, popolato da creature ironiche e grottesche, ma pure, sincere e senza gabbie mentali.
‘Push the botton to reset’: sognare e lavorare per un’umanità diversa!