«Arrivammo in questo posto buio, non capivamo niente. Ci spinsero dentro il treno a calci e pugni, ci sputarono, era qualcosa che andava al di là dell’immaginazione più spaventosa. La gente piangeva, si disperava».
Da quel ventre oscuro, sottostante la Stazione Centrale di Milano, oggi centro di cultura e laboratorio di cittadinanza, frequentato da migliaia di persone ogni giorno, Liliana Segre, chiusa in un carro bestiame, fu deportata ad Auschwitz a 13 anni «per la sola colpa d’essere nata» insieme ad altre 604 persone tra cui il padre.
Qualche sera fa, nel Giorno della Memoria, nel corso della diretta televisiva Binario 21, trasmessa da Rai 1, Liliana Segre ha messo quei momenti nella memoria di ben “quattro milioni seicento cinquantacinque mila” spettatori.
Una testimonianza emozionante e personale, un racconto civile collettivo, un viaggio indietro nel tempo di 79 anni che si è avvalso anche di materiali fotografici, stampa e video dell’epoca, rendendo visibile a tutti un luogo normalmente invisibile a ricordo di una delle vicende più nere delle pagine della storia dell’uomo, che non deve mai e assolutamente essere dimenticata.
Tra quei spettatori c’ero anch’io, colpito nel corso del racconto dalla serenità e a tratti dal sorriso della Segre.
Nella emozione di quel sorriso mi viene incontro, confermando le mie sensazioni, un articolo della giornalista Lucrezia Cutrufo apparso sul quotidiano “La Discussione” che riproduco integralmente.
“Splende. Su tutte le parole, i ricordi, le lacrime asciutte, il dolore cupo e abissale, splende.
E’ il sorriso della Senatrice Segre.
Consapevolmente sereno, luminoso, una gioia conquistata, una lacerante tristezza risolta, una pacatezza silenziosa e brillante.
Splende.
Lo sguardo fermo, sicuro.
Gli occhi due stilettate di forza vitale. Una dolcezza da cui traspaiono le Sue parole: “Nelle notti ad Auschwitz ero fortissima”.
Tutto passato. Tutto presente.
Entrare nel Suo sorriso è già “fare memoria”.
Contemplare i Suoi movimenti lenti, misurati, essenziali, lasciarsi affascinare dal Suo eloquio pacato, equilibrato, imperturbabile, mai astioso, avvicina al senso ultimo dell’esistenza: non odiare, o più chiaramente, perdonare.
Lei dice di non aver perdonato, ma, tuttavia, di non odiare.
Cos’è il perdono, al di là dell’atto formale pronunciato od esplicitato in qualche forma, se non lo scioglimento intimo, nell’animo, dei sentimenti negativi di odio o rancore per un torto subito…
E quale torto.
Un cronista di guerra alcuni giorni fa, trovandosi nell’incapacità di riversare nella cronaca le emozioni di quel momento, ha detto che “non sono state inventate le parole per descrivere il dolore, lo strazio” che provano i parenti delle vittime civili in Ucraina nell’attesa di ritrovare e rivedere i corpi devastati ed esanimi dei propri cari.
La Presidente Roberta Metsola, nel tentativo di rendere più facilmente comprensibile l’entità della Shoah, ha così quantificato, con riferimento ad una tempistica impressionante ed agghiacciante:
“Se osservassimo un minuto di silenzio per ogni vittima dell’Olocausto dovremmo restare in silenzio per undici anni”.
Lei, Liliana, la tredicenne dell’ultima Sua foto di ragazza coccolata e inconsapevole dell’inumano futuro incombente, arrestata e deportata per il solo torto “di essere nata”, Lei, tatuata 75190 di un incomprensibile, indefinibile, orrendo, mostruosamente tragico campo di sterminio, Lei, che ha attraversato nel Suo ingenuo fiorire di giovane donna, che non aveva conosciuto la guida e l’abbraccio comprensivo della propria madre, la brutalità più crudele che la spietatezza umana possa concepire, Lei, oggi, ci regala un sorriso che aiuta noi a riconciliarci con la bellezza della vita, che ci solleva dal turbamento raro in cui si sprofonda mentre si ascolta, muti, attoniti, il Suo confidenziale, intimo, sussurrato racconto.
Grazie, Liliana, parlo alla bambina che tornò stravolta, trasformata, disorientata, nella ritrovata “civiltà” radicalmente dissonante e distante, però, dalla Sua maturità vorticosamente sviluppatasi nell’attraversamento di deportazione, lavori forzati, marcia della morte e peregrinazioni.
Grazie, per raccontarci anche che ha “conosciuto l’amore” e che “una mamma che allatta non può odiare”.
In questo tempo travagliato, difficile, Liliana, mi permetta, grazie per il Suo sorriso.”
Vincenzo Fiore
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