Al calare della sera, quando l’imbrunire non desta nessuna sensazione d’angoscia e si erge a sinonimo di mite rilassatezza, alcune vie della città di Alcamo si popolano di un’essenza che si abbarbica ai margini della dimensione trascendentale.
Tutto avviene in prossimità di parecchie Chiese, degli anfratti silenti e stremati delle coscienze penitenti, delle strade che esibiscono il loro ciotolato antico, intriso di una storia incancellabile che fu scritta ed apprezzata nel corso dei secoli remoti.
Ho passeggiato così tanto.
Sono trent’anni che m’aggiro per “il cassaro” muto e semi deserto e lo faccio quando può finalmente andare incontro al meritato ed inevitabile riposo, per gentile concessione della chiusura dei negozi concitati che lo sradicano dall’icombente e patrigno caos giornaliero.
Perché a me piace così.
Sono una sorta di bizzarra asceta occasionale che apprezza parecchio le festose relazioni interpersonali, ma che all’orroccorrenza sa bene come assaporare i benefici di una sana solitudine rigenerante.
Sono forse detentrice di una personalità dominata dal paradosso?
È probabile, ma non saprei in che altro modo condurre la programmazione stravagante e varia della mia esistenza.
Gli ultimi tempi mi hanno vista molto lontana da Dio.
Non ne comprendo le reali motivazioni, ma mi rendo perfettamente conto che l’indisturbato logorio della mia anima stava prendendo il sopravvento su una serenità necessaria, della quale mi pareva di serbare a malapena un ricordo offuscato e lontanissimo.
Ma non molto tempo addietro, nel corso di una una delle mie solitarie passeggiate in centro, avvertii l’impellente esigenza di varcare la soglia dell’imponente Basilica Alcamese, dedicata a “Maria Santissima dei Miracoli”, Patrona della mia città.
Desideravo affidare un’accorata preghiera alla Beata Vergine, nella speranza che la sensazione di malessere che stava attanagliando l’anima mia, all’interno di una morsa d’angoscia destabilizzante, fosse benevolmente smorzata dalla pietà incondizionata ed amorevole della mia Santa e Potentissima Madre.
La statua della “Madonna dei Miracoli” ha uno dei volti più belli che si possano contemplare nell’ambito dell’iconografia Sacra.
Pare che incastoni il suoi santissimi occhi nelle iridi imploranti del fedele penitente, che contempla la sua dolcissima immagine con desiderio d’abbandono.
E ovunque quest’ultimo volgerà la traiettoria del proprio sguardo, avvertirà che Ella lo seguirà insistentemente, per evitare ad ogni costo di smarrire la direzione del suo cammino all’interno della grande Chiesa.
La sensazione che ne scaturisce fa ascendere le lacrime agli occhi.
Quel giorno sedetti innanzi a Lei, Le parlai sommessamente, Le affidati le migliori intenzioni che mi stava suggerendo il cuore.
Poi, d’un tratto, un lontano ricordo sovvenne alla mia mente.
Era il 2 aprile del 2005 ed io, insieme con un’enorme quantità di gente affranta, presi posto all’interno della stessa Basilica nella quale stavo pregando.
Tutta la comunità cristiana era pienamente cosciente del fatto che Papa Giovanni Paolo II fosse in preda ad uno stato di agonia irreversibile e che, da lì a breve, avrebbe certamente raggiunto in gloria “la Casa del Padre“.
Quel giorno non recitammo solamente delle preghiere.
Ogni espressione scaturente dalle nostre bocche indegne, era pur sempre una sofferta intenzione di amorevoli propositi d’accostamento al volere di Dio.
Ma proprio il volere di Dio, ahimè, si dimostrò antitetico rispetto alle unanimi speranze.
Papa Wojtyla, infatti, esalò il suo ultimo respiro nel bel mezzo delle nostre intime invocazioni.
“Sia fatta la tua volontà, mio Signore”.
Non potei pensare ad altro che non fosse la passiva accettazione del suo insindacabile potere decisionale.
Il ricordo continuò ad accompagnarmi ancora per qualche istante.
Ma da lì a breve, come se fossi stata placidamente scossa dalla sollecitudine della memoria, mi resi conto che il giorno corrente riportava la data del 2 aprile 2019.
“Oh, mamma mia! Che coincidenza!”
Pensai tra me:
“Dopo ben quattordici e lunghi anni dalla scomparsa di Papa Wojtyla mi trovo a pregare esattamente nello stesso posto di allora”.
Avvertii l’esigenza di una buona confessione.
La Basilica era deserta.
Nessun fedele che potesse fornirmi alcuna indicazione.
Nessun Sacerdote che accogliesse la mia sentita ed impellente richiesta di liberazione dagli affanni del mio spirito.
Così mi alzai, salutai la Vergine Madre con il segno della croce e mi diressi verso l’uscita della Chiesa.
E quando attraversai con celerità l’imponente navata centrale, scorsi in lontananza un uomo anziano, seduto dietro l’ultimo banco sulla destra, vestito con una lunga tunica bianca, con le mani congiunte ed un po’ tremolanti.
“Oh, un Sacerdote! L’ho trovato, che fortuna!”…
Mi avvicinai con molto tatto, sopraffatta da un marcato senso di timore reverenziale.
Non avrei voluto nuocere in alcun modo , ma il bisogno di parlare delle mie afflizioni superò di gran lunga la paura di essere di disturbo.
” Mi scusi tanto, Padre. Potrei conferire con lei solo per qualche istante? Prometto che non le ruberò troppo tempo”.
” Figlia mia, lo sai quanto tempo ho dalla mia parte? Dispongo dell’eternità”.
Il suo volto sorridente, quegli occhi che non potrei dimenticare neppure se trascorressero più di cent’anni, l’inconfondibile tono di voce che si rivelò quasi la colonna sonora spirituale di ventidue anni della mia vita.
Era San Karol Wojtyla.
Perché aveva accettato di conferire con me?
Beh, in realtà detenevo più risposte di quante credessi.
Il mio momento di allontanamento da nostro Signore richiedeva certamente un intervento di salvezza immediato e il mio Dio, come avevo sempre immaginato, non mi avrebbe mai abbandonata nell’attimo del grande bisogno.
Mi gettai per terra, baciai le sue mani, mi prostrai con atteggiamento servile al cospetto del Santo Padre.
“Alzati, figlia mia, non occorre che ti inginocchi con eccessive ostentazioni di riverenza. Ho già letto ogni parola che sta impressa nel tuo fragile cuore. Sollevati, orsù, accomodati accanto a me. Non c’è bisogno che tu proferisca una sola parola superflua, poiché conosco persino ogni flebile sfumatura che delinea i contorni della tua anima in pena”.
Feci esattamente come Lui mi suggerì.
Mi alzai da terra, presi posto a fianco alla sua immagine eterea, versai cospicue lacrime amare per alcuni ed interminabili minuti.
Poi, all’improvviso, venni finalmente travolta da una freschissima ondata di pace rassicurante.
“Ragazza mia, sai che nostro Signore ci vuol vedere felici? Dio Padre detesta fortemente il pianto e l’autocommiserazione. Siamo stati creati per gioire, per amare, per assolvere ad una volontà suprema che non può e non deve essere sottoposta a sentenza di sorta. E non perché Dio sia un insindacabile despota, ma perché sa esattamente qual è il cammino più giusto da percorrere. Egli conosce alla perfezione le nostre esigenze, le debolezze di ciascuno di noi, il punto fallace presso il quale inciamperemo e l’attimo esatto in cui ci risolleveremo dal duro masso. Non v’è nulla di intelligibile per nostro Signore. Egli ci pone innanzi a delle prove ben mirate, al fine di comprendere appieno sino a che punto siamo disposti ad amarlo incondizionatamente”.
Ascoltai le sue parole colme di rigore, con l’analogo coinvolgimento di una bambina che si appassiona alle fiabe raccontate dal proprio papà.
Lo amai moltissimo.
Fu il solo Pontefice che conobbi dalla mia nascita, fino all’età di ventidue anni.
“Cara figlia, accogli tra le mani la tua sofferenza ed affidala a Dio come se fosse un proiettile. Te lo ricordi quel proiettile che nel 1981 mi colpì all’addome? Non eri ancora venuta al mondo ma ne sei ugualmente a conoscenza. Bene, sono sempre stato fermamente convinto che in Piazza San Pietro, accanto il mio corpo in balia della tribolazione e gravemente ferito, ci fosse la tenerissima presenza di Nostra Signora di Fatima. Mi spararono proprio nel giorno in cui ricorreva l’evento commemorativo dell’apparizione che la Vergine Maria fece ai tre pastorelli. Ella mi offrì la sua materna protezione e pianifico’ amorevolmente il suo salvifico intervento nei miei riguardi . Ecco, ritornando alla tua intima sofferenza. Come stavo per dirti poc’anzi : consegnala al Signore, lascia che Lui se ne prenda carico e che ti guarisca con infinita misericordia. “Incastonala” nel progetto di salvezza che ha appositamente pensato per te, come feci io, a suo tempo, col proiettile mortale
nella corona di Maria”.
Era proprio tutto vero, non sussistette alcuna necessità che io proferissi parola.
Fu assolutamente consapevole di tutto quello di cui avevo bisogno ed il conforto spirituale che ricevetti, a cuore spalancato, era la manifestazione tangibile della medicina più efficace che avessi mai assunto in vita mia.
“Santo Padre, non mi abbandoni. Preghi per me”.
” Prego sempre per te, ragazza adorata, e per tutti i figli di questo mondo tristissimo e martoriato. Ti invio un bacio molto speciale, quello di una donna che ti volle e che ti vuole molto bene“.
Compresi immediatamente il chiaro riferimento alla mia indimenticabile nonna.
Ma questa volta non versai neppure una lacrima.
Fui bensì colta da infinita e rassicurante allegrezza.
“Io ti benedico nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Poi, un assordante silenzio.
Mi resi conto di essere rimasta totalmente da sola, all’improvviso, all’interno della Basilica deserta.
Uscii ben presto fuori dalla Chiesa.
La mia anima straripava di riconoscenza nei confronti della vita, perché avevo sancito nuovamente il mio profondo legame con Dio, perché l’impronta surreale che aveva caratterizzato l’incontro al quale mi ero fiduciosamente abbandonata, aveva conferito un’enorme dignità al mio spirito ferito.
Al calare della sera, quando l’imbrunire non desta nessuna sensazione d’angoscia, alcune vie della città di Alcamo si prestano alla contemplazione della presenza sottile del sovrumano e alla riflessione in merito al supremo concetto di Divino Amore.
Ed io, seppur ormai fossi fuori dalla “Basilica dei Miracoli” , non cessai ardentemente di pregare.
Di pregare, sì…
“Nel nome del Santo…”
Maria Cristina Adragna