Venerdì scorso, a Traversetolo, in provincia di Parma, è stata messa agli arresti domiciliari Chiara Petrolini, la donna di 22 anni accusata di aver sepolto in giardino i due figli appena nati, dopo aver ucciso almeno uno di loro.
Le circostanze della morte del primo bambino, nato nel 2023, non sono ancora state accertate, mentre il secondo bambino, nato nel 2024, è morto perché il cordone ombelicale non è stato bloccato dopo essere stato tagliato, provocando un’emorragia.
La donna è accusata di omicidio volontario aggravato per la morte del secondo bambino e di soppressione di cadavere per aver sepolto il corpo del primo.
Ulteriori approfondimenti potrebbero portare ad altre accuse anche per la morte del primo bambino e per l’occultamento del cadavere del secondo.
Chiara Petrolini ha negato di aver causato le morti.
Durante gli interrogatori non ha specificato se il primo bambino fosse nato vivo o morto e ha detto di aver perso conoscenza dopo il secondo parto: al suo risveglio avrebbe trovato morto il bambino.
La cosa sconvolgente è che al momento non sono stati rilevati disturbi psichiatrici nella donna, ma saranno condotti altri esami, anche per accertarne la capacità di intendere e di volere…e non si tratta di “sindrome di Medea”.
Chiara viene descritta in paese come solare e sempre sorridente, eppure vive un malessere interiore di cui nessuno si è accorto come nessuno si è accorto della sua pancia che cresceva e che lei cercava di nascondere in tutti i modi possibili.
Ma che cosa l’ha portata ad uccidere i suoi due bambini, ad un anno di distanza uno dall’altro? Davvero non c’è un movente?
La ragazza ha raccontato agli investigatori, di temere «il giudizio dei miei genitori e del mio ragazzo…il padre dei due neonati come gli esami di DNA hanno confermato…» e ha quindi cercato di «occultare i neonati» seppellendoli poi sotto la sua finestra «per tenerli vicini».
Anche in questo caso fondamentale il ruolo dei social.
Chiara rompe le acque il primo agosto.
Da quel momento cerca sul web notizie sul travaglio. Ricerche che, per la Procura, puntavano a capire come fare per «sopprimere il figlio».
Il portare avanti due gravidanze all’oscuro da tutti, compresi i genitori e il padre dei bambini, l’assoluta mancanza di riferimento ad una struttura sanitaria, la scelta di voler partorire da sola in casa, senza alcuna assistenza, di tagliare da sola il cordone ombelicale… tutte queste scelte sono state ammesse agli inquirenti ma non hanno trovato una spiegazione che possa sembrare credibile.
La ragazza è sempre stata in sé, c’è stato solo un momento in cui si è lasciata andare a qualche lacrima quando ha raccontato del primo neonato che, a detta della giovane, sarebbe nato morto.
Cosa ne penso io?
Ci sono alcune evidenze e dati da considerare per formare una opinione la più corretta possibile.
Nell’immaginario collettivo, il genitore omicida, in particolate la madre omicida, tende ad essere categorizzato come un malato mentale, quale unica spiegazione plausibile dell’efferatezza di un gesto, ciò a maggior ragione se l’omicida è appunto la madre.
Le evidenze derivanti da dati storici e clinico-forensi, evidenziano invece la drammatica realtà che tali incomprensibili condotte umane non necessariamente e solo in una percentuale minore di casi, sono espressione di una patologia psichiatrica.
Il falso mito della maternità quale funzione umana protettiva e amorevole per eccellenza mostra dunque, di fronte l’evidenza statistica dei dati, la sua fragilità, rischiando inoltre di interferire con la comprensione di un fenomeno che va ben oltre i confini dell’eventuale psicopatologia materna.
Responsabili infatti del fenomeno sono la famiglia, quella allargata e l’intero contesto sociale e culturale di riferimento della donna. L’assenza di una rete familiare e sociale in grado di supportare la madre che vive una fase di fragilità, l’incapacità di quest’ultima di comunicare il proprio disagio e magari una storia familiare connotata da esperienze sfavorevoli infantili, rappresentano significativi fattori di rischio rispetto la condotta figlicida.
Le tematiche della solitudine e dell’apparenza sociale e social compaiono di frequente nel racconto delle madri che uccidono i propri figli, nel senso del sentirsi sole, non capite, non sufficientemente supportate dagli altri, da cui non si sentono accudite, di non voler essere oggetto di critiche, di temere per la propria immagine.
L’esperienza della maternità rappresenta infatti un compito evolutivo importante sia per la madre, sia per il suo entourage, un punto di svolta irreversibile nel ciclo vitale di una donna, tale da configurarsi come crisi a causa di una irreversibile trasformazione, passaggio critico nell’universo degli adulti, spaventoso, destabilizzante perché si abbandona la propria “identità infantile”.
Ciascun figlicidio rappresenta dunque una realtà a sé e a mio avviso va inquadrato in un contesto di conclamata “anaffettività sociale”, spaventosa caratteristica che stiamo vivendo e che i nostri giovani subiscono e mostrano.
I disturbi più frequentemente diagnosticati alle madri figlicide sono i disturbi psicotici, dell’umore, di personalità e dell’adattamento, oltre alla “intima resistenza a diventare adulti”.
E ricordiamoci che Chiara ha soli 22 anni…la questione quindi è ben più complessa e va inquadrata nel crollo generalizzato di certezze e valori sociali, ambientali, politici, religiosi…