Ho aspettato che arrivasse la sera per scrivere di ricordi che sono dentro me e che mi hanno cambiato la vita.
Ero come tanti uno studente all’università della Calabria, ad Arcavacata, e stavo vivendo i miei anni più belli, liberi, scanzonati.
Ma quella domenica sera, ancora non lo sapevo, mi sarebbe cambiato qualcosa dentro.
Guardavamo “novantesimo minuto” perché non essendoci tutti i canali tv di oggi, era l’unico modo per vedere ciò che era successo nel campionato di calcio.
Improvviso un forte tremore.
Un terremoto, cosa abbastanza comune a quei tempi e non particolarmente forte.
Per me che sono un fatalista niente più che un tremolio visto che in quel momento sono rimasto lì seduto a guardare la tv.
Soltanto più tardi, quando iniziarono ad arrivare le prime notizie sul fatto che il terremoto era stato in Irpinia e che noi a quasi 250 km di distanza lo avevamo sentito, iniziai a pensare che forse qualcosa di brutto doveva essere successo.
L’indomani le prime immagini sbattono in faccia crolli, abbandoni, gente sperduta ma pensai, arriveranno i soccorsi e tutto rientrerà nella normalità sebbene i precedenti del Belice non deponevano bene.
Ma la sera persone disperate continuavano ad essere sole e si capiva che sapevano che chi sarebbe andato non avrebbe potuto fare molto ma almeno dividere quel peso enorme di morte e di disperazione.
Sono passate già 24 ore dalla prima forte scossa.
L’indomani mattina, alla notizia che ancora i soccorsi non erano arrivati, nell’università cresce la rabbia e decidiamo unitamente ai professori di organizzare una squadra di aiuto e di andare direttamente lì a dare una mano.
Partenza primo pomeriggio, arriviamo col buio ed un ufficiale dell’esercito ci dice che non serviamo, di andare via.
Ma siamo lì quindi attrezziamo il campo per la notte ed al mattino decideremo cosa fare.
Il mattino successivo, con le prime luci del giorno, il paese vicino a quello in cui abbiamo dormito, Laviano, si presenta come un unico cumulo di macerie, con poco esercito, poche forze dell’ordine e nessun volontario ancora arrivato.
Restiamo quindi lì.
Mai potrò dimenticare la scena che si presentò ai miei occhi arrivando in uno spiazzo ai bordi delle macerie.
Una distesa di bare, impressionante.
Ed il compito che fu assegnato ad qualcuno di noi, me compreso, quello di verificare se erano vuote o piene e dividerle di conseguenza.
Fu il primo scontro con la crudezza della realtà, con l’ineluttabilità del destino, con la bruttezza della morte.
Intorno la disperazione di chi ci implorava di aiutarlo a scavare per recuperare almeno i corpi dei morti.
E poi l’odore forte di disinfettante per coprire quello dolciastro dei corpi che dopo due giorni iniziavano a decomporsi.
Scavare senza attrezzi, con le sole mani, rimuovere pietre, stringere mani e farsi sentire vicini a chi in quel momento era disperato.
Ricordo che le scosse non finivano mai, né di giorno né di notte e che alla fine l’abitudine aveva preso il sopravvento.
Certo quando eravamo in mezzo alle rovine l’istinto era quello di scappare via per evitare che qualche crollo ci coinvolgesse ma il terremoto era diventato un compagno quotidiano.
A distanza di 40 anni, ricordo perfettamente quei momenti, quelle sensazioni, quel dolore, quei visi, quelle lacrime.
Mi sono portato da allora dentro la naturalezza nell’aiutare chi vedo in difficoltà, senza aspettarmi niente ma semplicemente perché è naturale dare una mano a chi ne ha bisogno.
E poi l’ineluttabilità del destino.
Inutile pensare di poter fuggire lontano o prevenire ciò che inevitabilmente ed indipendentemente da te se deve accadere accadrà.
E poi il ricordo di un Sud che non esiste più, di ragazzi che dimostravano allora come in tanti fanno oggi, che ognuno di noi sa dare, vuole dare e può dare.
Che la fratellanza non è un termine astruso ma semplicemente un valore forte che da solo può sconfiggere gli isterismi e le nefandezze di chi si sente un privilegiato o superiore.
E soprattutto che nessuno è al riparo da ciò che può accadere e che solo insieme si può andare avanti per sentirsi al sicuro.
Maurizio
“Ombre
nel vuoto di corpi
inimmaginabili
dopo un giorno di pioggia.
Catene libere trattengono mani
che vorrebbero urlare.
Gole
trattengono parole
troppo difficili da capire
ad anime grigie.
Cuori si stringono
per allontanare la paura.
La notte dopo il buio
è impenetrabile
come il dolore
che accompagna il silenzio.
Accade sempre di notte
la tragedia
perché
non siamo capaci
di lasciare
una luce sempre accesa”.
Maurizio Gimigliano © Copyright 2020