La forza di una donna per difendere se stessa e i figli dalle violenze del marito

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Le storie di violenza sulle donne sono diventate all’ordine del giorno.
Si sentono notizie del genere quasi ogni giorno, eppure non sono ancora riuscita ad abituarmi alla cosa.
Ad ogni episodio di violenza sulle donne ho una sensazione strana, un misto di tristezza e rabbia per la donna che ha pagato con la vita la sua paura di scappare e denunciare il suo carnefice.
Oggi invito tutte le donne, soprattutto coloro che sono minacciate e violentate dai mariti, a leggere questa storia.
È un modo per darci il coraggio e forza per continuare a vivere e affrontare nel modo migliore le difficoltà per il nostro bene e per quello dei nostri figli.

“La nostra sembrava una bella storia d’amore, una come tante. Certo, da subito lui si era mostrato molto geloso e possessivo. Ma io avevo scambiato i suoi atteggiamenti per attenzione, per cura. ‘Mi considera preziosa’, pensavo”. Martina, un nome di fantasia, ha 36 anni e quando racconta la sua storia di violenza subita dall’uomo che ha scelto, lo fa sorridendo. Perché la sua è una storia di rinascita, di riscoperta di se stessa, del suo valore e delle sue potenzialità. Dopo aver visto l’inferno. O meglio, dopo non averlo voluto vedere come un inferno per troppo tempo, dopo non essere riuscita a chiamare la violenza con il suo nome per troppo tempo. Ci sono voluti sei anni di una relazione violenta e umiliante prima che Martina riuscisse ad allontanarsi, ad andare via, a chiedere aiuto, a denunciare. La spinta a salvarsi, come accade molto spesso, è arrivata dai suoi due bambini.

“Solo nel momento in cui ho dovuto scegliere tra lui e i bambini ho davvero capito: un uomo che trattava male me faceva del male anche a loro. Io non potevo stare bene come madre, come donna e quindi neanche loro. Nel momento in cui ho focalizzato la mia attenzione solo sui miei figli sono riuscita a iniziare il mio percorso di recupero vero e proprio”. Sei mesi fa Martina è andata via di casa con i suoi due figli. Non era la prima volta: nei sei anni di relazione era successo diverse volte, dopo litigi, botte, insulti. C’era stata anche una denuncia, in ospedale. Quando è nato il loro secondo bambino Martina si è rifugiata da sua madre, come tutte le altre volte, per sfuggire alle minacce e agli insulti. Ma poi, sempre, si era lasciata convincere a tornare. “Mi aggrappavo all’idea che lui fosse pentito, che sarebbe cambiato. Sono sempre rimasta attaccata all’idea di lui, quella che mi ero fatta nei primi mesi insieme e pensavo che la parte ‘buona’ avrebbe prevalso. Ma non era mai così”. Ogni volta che andava via, Martina poi tornava, convinta dalle sue preghiere e dalle sue promesse.

L’unica volta che ce ‘ha fatta a non tornare è stato quando ha scelto di andare in una casa rifugio, dove sapeva che lui non l’avrebbe potuta trovare. Le case rifugio, spesso a indirizzo segreto, ospitano le donne ed i loro figli minorenni per un periodo di emergenza e il più delle volte sono collegate o gestite dai Centri antiviolenza. La casa rifugio che ha ospitato Martina fa parte della rete D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza

“E’ stato un percorso durissimo – racconta – io sarò eternamente grata a tutte le operatrici per la pazienza infinita che hanno avuto con me. Perché io dopo 4 giorni nella casa rifugio avevo già dimenticato, volevo scappare, tornare da lui. Io ancora non volevo vedere e capire. Ero come una tossicodipendente in crisi d’astinenza”. Martina dice che il suo è stato un vero e proprio percorso di disintossicazione: “E’ stato davvero difficile. Ho dovuto mettermi completamente in discussione, vedere quello che non avevo voluto vedere per sei anni. Quello che le operatrici, la psicologa, chiamavano violenza, io non la riuscivo a chiamare così. Non ci riuscivo perché lui mi aveva convinta che non c’era nessuno di cui mi potessi fidare, che solo lui poteva aiutarmi a gestire la mia vita, visto che io ero incapace”. Iniziare a fidarsi di qualcuno che non fosse lui, uscire dall’isolamento è stato il primo passo. “Poi, pian piano. Sono riuscita a vedere tutto”.

Un giorno l’avvocata di Martina le porta una memoria da leggere, per poi presentarla al giudice. Una memoria che ripercorre i sei anni della sua relazione. Martina vede scritto nero su bianco quello a cui non riusciva a dare un nome: il naso rotto e la corsa in ospedale, gli schiaffi, gli insulti che la facevano sentire sempre incapace, sbagliata, colpevole lei stessa di quella rabbia che si scatenava contro di lei. Perché non era una buona madre, una brava moglie, perché non capiva niente. I soldi che lei guadagnava, mantenendo lui e i bambini e che lui le rubava per giocare. O che le chiedeva, se doveva occuparsi dei bambini mentre lei era a lavoro, come fosse una baby sitter. La casa distrutta in uno dei suoi eccessi d’ira, le volte che tornava ubriaco, le fughe da casa con i bambini per rifugiarsi da sua madre quando lui era fuori di sé, le corse in ospedale quando era incinta perché la picchiava o la insultava fino a farla star male. Le minacce coi coltelli, gli ordini a cui lei doveva solo obbedire. Per sei anni.

“Ho pianto, mi sono sentita una fallita, delusa da me stessa, continuavo a dare le colpe a me e al non aver saputo gestire la situazione diversamente. Pian piano le operatrici mi hanno aiutato a lasciar andare le colpe e a concentrarmi su quello che sono e che possono essere anche senza di lui, sulle mie potenzialità. La mia autostima quando sono arrivata nella casa rifugio era a zero, pensavo di non valere niente, perché era quello che mi diceva lui ogni giorno. Il mio percorso è stato quello di distruggere un’immagine falsata, una convinzione radicata. Un bellissimo percorso, sarò grata per tutta la vita per l’aiuto ricevuto. Per essere stata aiutata a capire che quello non è amore, che non ha niente a che fare con l’amore”. Martina ora sa che da una situazione del genere può solo stare lontana, il più possibile.

“Lentamente, dopo la crisi di astinenza, riacquisti le energie fisiche e soprattutto mentali per potercela fare. Io ora devo riprendere la mia vita a dove ero sei anni fa. Sono stata per sei anni come un burattino nelle mani di un uomo. Ora ho la consapevolezza di ciò che sono, di quanto valgo”. Dopo 5 mesi e mezzo nella casa rifugio, Martina è potuta tornare dai suoi genitori con i suoi bambini. Prosegue il suo percorso di uscita dalla violenza e di recupero della sua autonomia, insieme all’operatrice che l’ha seguita. E’ costantemente monitorata dagli assistenti sociali. “Al giudice l’ho detto: io sono disponibile a fare tutti i percorsi necessari, basta che i miei figli stiano con me”. II processo è ancora in corso, al suo ex è stata sospesa la potestà genitoriale. Gli assistenti sociali gestiscono gli incontri protetti del padre con i figli: “Gli assistenti sociali valutano cosa è opportuno o meno fare. Io non parlo mai male di lui davanti a loro, è comunque loro padre. Se poi i bambini non volessero gli incontri o stessero male, saranno gli assistenti sociali a valutare il da farsi. Io devo occuparmi di me adesso. Per me stessa e per loro”.

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