Femminicidio: un problema che riguarda tutti

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Parlare di femminicidio non significa solo fare cronaca nera, ma affrontare un problema radicato in una cultura di controllo e possesso. È una crisi sociale e culturale che richiede risposte concrete e l’impegno di tutti.

Iniziamo col dire perché si chiama “femminicidio”

“Femminicidio” è un termine specifico: descrive l’uccisione di una donna in quanto tale. La violenza scaturisce da una logica di possesso e disprezzo verso l’autonomia femminile. In relazioni tossiche, il controllo può trasformarsi in oppressione; quando una donna sceglie di andarsene o ribellarsi, questo può sfociare in un’escalation di violenza.

Da dove viene questo termine?

Negli anni ’70, la criminologa Diana Russell ha coniato il termine “femicide” per indicare gli omicidi di donne commessi per ragioni di genere. In Italia, “femminicidio” è entrato nel dibattito pubblico nei primi anni 2000, grazie ai movimenti femministi che hanno evidenziato la natura sistemica e culturale del fenomeno.

Perché è importante questa distinzione?

Usare la parola “femminicidio” ci costringe a guardare la realtà senza filtri: la violenza contro le donne non è un fatto isolato, ma il riflesso di una società che in parte tollera queste dinamiche. Non parliamo solo di omicidi, ma di un fenomeno radicato in secoli di disuguaglianza.

Come affrontare il problema?

Per fermare il femminicidio, è necessario agire sulle cause profonde: educazione, cultura e un sistema di supporto efficace. È importante opporsi alla mentalità di possesso e controllo, perché questi omicidi sono solo l’ultimo atto di una violenza che spesso nasce da atteggiamenti tossici accettati nella quotidianità.

La cultura del possesso

In una società che per secoli ha attribuito all’uomo il potere e alla donna un ruolo subordinato, la violenza diventa un modo per riaffermare questo controllo. Quando una donna è vista come una “proprietà”, la violenza diventa un’“estrema soluzione” per chi non accetta un rifiuto. Dobbiamo spezzare questo ciclo.

Minimizzare è pericoloso

Quante volte sentiamo parlare di violenza come “scatti di gelosia” o “momenti di rabbia”? Minimizzare questi episodi rende difficile riconoscerli come segnali di pericolo, permettendo alla violenza di diventare “normale” e imprigionando la vittima in un ciclo di abusi. È fondamentale sensibilizzare tutti, riconoscendo e fermando questi segnali prima che si trasformino in tragedie.

Educazione emotiva carente

Non insegnare ai ragazzi a gestire emozioni come il rifiuto o la fine di una relazione ha conseguenze devastanti. Molti femminicidi avvengono proprio quando una donna decide di chiudere una relazione, perché per alcuni uomini questo rifiuto minaccia la loro identità. È essenziale educare al rispetto e a considerare il fallimento come parte naturale della vita.

Un supporto istituzionale insufficiente

Molte denunce restano senza risposte adeguate o tempestive, lasciando le vittime sole e vulnerabili. Il sistema giudiziario spesso è lento e complesso, e l’assenza di un supporto psicologico accessibile priva le donne di un aiuto reale. Serve un sistema di protezione rapido e sicuro.

Cosa possiamo fare, tutti insieme?

1. Investire nell’educazione emotiva: La prevenzione inizia nelle scuole e in famiglia. Genitori e insegnanti devono educare i ragazzi al rispetto, insegnando loro il valore di un “no” e come gestire il rifiuto.

2. Implementare la formazione delle forze dell’ordine: Polizia e operatori sanitari devono essere preparati a riconoscere i segnali di rischio e ad agire tempestivamente. Servono team specializzati per rispondere alle segnalazioni di violenza con concretezza ed efficacia.

3. Garantire protezione immediata e accessibile: Piani di sicurezza personalizzati, numeri di emergenza, luoghi sicuri e supporto finanziario sono essenziali per aiutare le vittime a spezzare il ciclo di violenza.

4. Creare comunità solidali: Ognuno di noi può fare la differenza. Anche un vicino può denunciare la violenza domestica. Non si tratta di curiosità, ma di salvare una vita.

5. Sensibilizzare i media: I media hanno un’enorme influenza sulla percezione della violenza di genere. Una rappresentazione rispettosa e realistica può fare molto per cambiare la cultura.

6. Coinvolgere le aziende: Le aziende possono offrire supporto alle vittime con congedi retribuiti e un ambiente di lavoro sicuro e solidale, contribuendo alla costruzione di una rete di sostegno.

Un impegno costante di tutti

Per fermare la spirale della violenza, è necessario agire su più fronti, non solo sostenendo le vittime, ma anche cercando di intervenire su chi commette questi atti, con percorsi di trattamento più efficaci. Questo significa affrontare le radici culturali e sociali del problema, responsabilizzare le istituzioni e coinvolgere l’intera comunità.

Ognuno di noi ha un ruolo. La violenza di genere non è un problema “degli altri”, ma una sfida che riguarda tutti. Agendo insieme, possiamo creare un futuro in cui ogni persona possa sentirsi sicura e rispettata.

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Maria Furfaro
Sono Calabrese. Avvocato penalista, Cassazionista, Criminologa, Docente e Coordinatore di Master universitari di I e II livello presso il Consorzio Universitario Humanitas di Roma. Esperta della procedura penale, in particolare dei mezzi di prova, di ricerca della prova e delle tecniche di esame e controesame, ho acquisito e sviluppato, attraverso lo studio, capacità di negoziare e mediare per la risoluzione dei conflitti. Particolare cura e attenzione la dedico alla difesa dei minorenni, alle vittime di reati sessuali, ai reati contro la famiglia e stalking. Sono Mediatore civile professionale, Esperto Negoziatore della crisi d’impresa, ho frequentato un corso perfezionamento all'Università Statale di Milano sulla 231. Presidente dell'Associazione Professional Speakers, organizzazione non lucrativa di utilità sociale dedicata alla formazione e divulgazione scientifica ed accademica. Sono Presidente AMI, Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani, Sezione di Milano

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