Erano i giorni delle croste in bianco e nero.
Quelle guaribili con un gesto che accompagnava il fazzoletto candido di bucato.
A quei tempi bastavano i calzettoni e un cerchietto con apine e fiori a decretare lo spartiacque tra l’infanzia e l’adolescenza.
Vi erano i riti familiari che sancivano le varie parti del calendario, e difficilmente queste parti erano asincrone l’una con l’altra.
Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi, le domeniche al mare, i lavoretti estivi, i libri delle vacanze, il corpo che cresceva e che non riconoscevi più, i passaggi timidi da un cantone all’altro delle esperienze, fatte senza troppa enfasi, quasi in sordina. Si diventava uomini e donne così.
Forse tra stereotipi: però lo si diventava.
Adesso, invece, è il tempo delle mele che, per comodità, durano tutta la vita e non si staccano mai dall’albero.
Il tempo delle confusioni sguaiate, delle ambiguità vendute, delle vite che si trovano sciupate nella noia del superfluo senza sapere come si possa sprecare la poesia del pane sporcandolo di fango.
Un fango in vetrina che seduce, e imbratta le vesti e l’ anima.
Non mi piace questo modo tentacolare di trattenere ciò che andrebbe liberato, librato, donato al mondo.
Non è libertà, non è giustizia, non è appartenenza.
È solo caos. Che deraglia, disgrega e disintegra.
Ho nostalgia dei tempi buoni, e duri: quando l’intero universo restava stretto tra due mani,
e lo sguardo non passava mai da un clic.
Allora, persino le secchezze avrebbero potuto conservare un nucleo di verde sotto l’apparenza dell’arsura.
Ecco perché i fiori non seccavano mai.
Carmela Laratta
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