“Prima del tramonto” di Nancy MacFurry

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Blogger per un giorno” continua con Nancy MacFurry

Prima del tramonto

C’era un innaturale silenzio lì, come se tutta la Natura tenesse il fiato sospeso, come se il tempo stesso si fosse fermato.

Oppure no: forse ero io ad essere sospesa oltre quel tempo e quello spazio, incapace di interagire con quella Natura, che mi sembrava ridere di me, delle mie fragilità; forse non ero in grado di interagire con la città, così trasformata e vuota; forse io ero piombata nel silenzio delle emozioni e non riuscivo ad appartenere a quel contesto assurdo.

Ero sul balcone e guardavo giù attonita, c’erano camion militari in fila indiana, una fila lunga di cui non potevo vedere inizio e fine da dove ero, ma dentro di me ero consapevole essere troppo lunga, troppo.

Aspettavano a motore spento probabilmente un comando per partire.

Su un altro balcone, un bimbo giocava seduto tra mattoncini di plastica colorata, intento a costruire qualcosa, che presto avrebbe smontato senza pensarci troppo; la sua mamma aveva notato i camion ed era uscita per riportarlo dentro casa loro, senza una parola.

Più in là dallo sguardo, una magnolia cinese si stagliava sul mio orizzonte, indecisa a metà tra sfoggiare ancora i suoi petali rosei o sostituirli del tutto con le nuove verdissime foglie di quella stagione.

Il venticello mi scompigliava i capelli, frustandomi piano le guance, smuovendo dolcemente le foglie degli alberi ed i fiorellini nel prato, che costeggiava la strada, diffondendo tutto attorno il profumo della primavera che si stava inoltrando, fredda e coi cieli grigi, stracciati ogni tanto da un sole pomeridiano, tiepido e chiaro.

Il venticello ancora andava smuovendo panni stesi ad asciugare, tende di finestre aperte solo per uno spiraglio, per non lasciare entrare cose indesiderate, smuovendo, tra le altre, anche un telo non ben ancorato sul retro di uno dei camion in strada, lasciando vedere il legno lucido di un feretro, dissipando ogni mistero sul carico, che sarebbe sparito dietro il primo angolo molto presto.

Assurdo che fossero lì, portati via in quel modo.

Assurdo che a nessuno fosse stato concesso accompagnare quel viaggio.

Come avremmo potuto riprendere le nostre vite di sempre, come avremmo potuto fare i conti con le nostre coscienze, se non ci era permesso onorare il momento, opportunamente?

Quei pensieri si facevano materia pesante nel mio stomaco e dovevo tirarli fuori in qualche modo, ma erano incastrati e non potevo vomitarli e nemmeno piangerli.

Mi stavo consumando su questo fatto, quando una leggera e velata immagine si mise a formarsi in bianco e nero, sul feretro che il vento aveva scelto per me.

Mentre la osservavo, quella si faceva nitida e colorata, anche se sbiadita ed allo stesso tempo troppo luminosa, come una fotografia sovraesposta.

Era l’immagine semitrasparente di un vecchietto e per qualche istante mi era sembrata davvero una fotografia a grandezza naturale, ma poi si era messo a fissarmi e sorridermi mestamente, in piedi, un pochino curvo su se stesso, sulla propria bara.

Non era nuovo il fatto di avere a che fare con gente disincarnata, era nuovo che a cercarmi fosse un estraneo, invece che un familiare, e che non stessi sognando.

Con una certa difficoltà e molta pazienza, il vecchietto discese, prima dalla cassa contenente le proprie spoglie, poi anche dal camion, e si mise sul marciapiedi sotto il mio balcone, come un Romeo che attende di poter parlare; ed io che a Giulietta non somiglio neanche un po’ e non le somigliavo allora, mi affacciai lo stesso, incapace di sottrarmi a quella richiesta: farlo, sprecando la sua fatica e la sua occasione di lasciare un messaggio, sarebbe stato imperdonabile.

“Non voglio lasciare i miei figli senza salutare…” le sue parole uscivano come una eco dalla sua bocca, per riempire la mia mente senza attraversare lo spazio tra noi. Più che parole, in effetti, m’erano comparse dentro sensazioni e ricordi, come fossero sempre stati miei.

Potevo condividere la sua angoscia sommessa, alla quale tentava di dare una ragione per placarla, ma che sapevo non poterlo lasciare libero ed in pace.

Non era solo il saluto che gli mancava, provavo, in simpatia con le sue vibrazioni, un senso opprimente di colpa: la malattia, le ho permesso di farsi spazio in me e sconfiggermi, forse non ho lottato abbastanza; nonostante tutti gli anni che ho vissuto, non ho davvero trasmesso quello che vorrei aver dato, forse non ho amato abbastanza, forse non sono stato all’altezza del mio compito, forse non ho vissuto pienamente… tante erano le sensazioni che arrivavano tutte contemporaneamente, non era semplice distinguerle.

Tanta amarezza era difficile da sostenere, ma capivo che già dividerla tra noi la rendeva più accettabile, solo che non bastava.

Ora mi sentivo come un fiume, non potevo piangere le lacrime, allora queste si riversavano in me, ingoiate tutte assieme, diventate soffocanti, straripanti. Come se il cielo fosse in sintonia, la pioggia ci bagnava su quel balcone, spettatore commosso dalla scena.

Potevo scegliere solo due vie: annegare assieme a quel vecchietto, oppure tramutare l’impeto di quell’acqua in un moto dolce di compassione.

Sapevo di non poterlo toccare, ma fu come prendergli le mani nelle mie e baciargli la fronte.

Immersi l’uno negli occhi dell’altra e viceversa, ci parlammo con le voci di tutti nel mondo, in tutte le lingue del mondo: fummo l’uno per l’altra e viceversa, nonni e nonne, madri e padri, fratelli e sorelle, figli e figlie, amici e nemici; unimmo i cuori in un flusso che scorreva dentro e attorno a noi e a tutto l’Universo, fummo le presenze di ogni passato e di ogni futuro, senza confine, vedendo chi eravamo, chi eravamo stati e chi saremmo diventati, in un modo così chiaro, così ovvio, che ci fu subito pace.

Nulla aveva importanza se non quel senso di gratitudine infinita che ci pervadeva all’unisono.

Ci separammo daccapo, dopo un tempo indeterminabile, scossi dalla nostra esperienza estatica, mistica, perché si era compiuto ciò che doveva essere.

Eravamo pronti, liberi, in pace.

Allora, il vecchietto si fece sempre più traslucido, evanescente.

Lo vidi svanire pian piano mentre ritornava al suo posto nel camion.

I motori in strada si erano accesi, la colonna marciava lentamente oltre l’angolo, una sfocatura permaneva su quel feretro muto, che si allontanava.

Mi sentii chiamare dalla cucina “è ora di cena, che mangiamo?”, si era fatto scuro, il sole doveva essere tramontato senza che ci badassi troppo, dopo che anche l’ultimo camion aveva svoltato, dimenticando il mio balcone, del quale forse non si era nemmeno mai accorto.

Nancy MacFurry 

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