L’autobus per il mare

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L’aria di febbraio è piacevole, in questi giorni, così decido di portare mia madre a fare una passeggiata sulla spiaggia, respirare un po’ di iodio fa sempre bene.

“Te lo ricordi l’autobus per il mare?” Le chiedo, passando in auto per la fermata denominata ‘Pennello’ e lei risponde solo un sì. Secco e asciutto. Nella mia mente però, riaffiorano i ricordi di un passato irripetibile.
Ricordo che si decideva di andare al mare almeno un paio di giorni prima e il giorno precedente alla data stabilita, che cadeva sempre di sabato, la cucina era in fermento. Gli odori si accavallavano e nello scolapasta, riposavano le melenzane, tagliate a metà e bollite. C’era di tutto, il soffritto di carne sfrigolava nella pentola, tra olio e cipolla e i pomodori, dopo la prima cottura, si disfacevano ad ogni giro della manopola del passaverdure. Peperoni variopinti friggevano in padella mentre le patate già mondate, aspettavano il loro turno, ansiose di diventare dorate e croccanti e poi sposarsi con i peperoni. La cosa che odiavo di più, era grattugiare il formaggio ma chissà perché, toccava sempre a me e. per ripagarmi di tanta tortura, appena mia madre voltava lo sguardo, rubavo a piene mani le patate fritte e le infilavo in bocca ancora bollenti. Tutto il pomeriggio del sabato andava così e stranamente, non ricordo di aver mai sofferto il caldo, in quella piccola cucina. Inutile dire che dopo tutto il friggere, infornare, bollire, sbucciare, grattugiare, la cucina doveva tornare asettica. Arrivava la domenica mattina. Mai capito perché nostra madre ci svegliasse tutti alle sei di mattina se l’autobus passava alle dieci, quattro ore prima! Indossavamo subito i costumi, aspettando pazienti che si liberasse il bagno, in fila dietro la porta mentre sul fuoco, già bolliva l’acqua per la pasta. In men che non si dica, sulla tavola apparivano piatti, bicchieri, posate, pentole, teglie, l’acqua e persino l’anguria. Non usavamo ‘l’usa e getta’, quelle erano cose da ricchi, ci portavamo dietro vetro e pesantissima ceramica. Quindi, dopo aver contato i piatti, li mettevamo in una borsa, stessa cosa per bicchieri e posate, tutti elegantemente protetti da una tovaglia da tavola colorata. Poi toccava ai tovaglioli, rigorosamente di stoffa. Mia madre scolava la pasta e la condiva con quel ragù profumato, ma così profumato, che faceva venir voglia di mangiarla subito, nonostante fossero solo le nove del mattino. La pasta, dopo una bella spolverata di parmigiano, restava nella pentola, chiusa col coperchio, poi avvolta in un grande tovagliolo e legato stretto stretto. Stessa cosa valeva per le teglie, coperte con i piatti, perchè sprovviste di coperchio e poi annodate anch’esse all’interno di un tovagliolo fresco di bucato. Tutto pronto!
“Dai, presto che perdiamo l’autobus…” La frase di mia madre era sempre la stessa, sempre uguale, anche nel tono della voce. Eravamo carichi come muli visto che insieme alle vettovaglie, si portava l’ombrellone, gli asciugamani, eventuali sedie e tavolino. Due scatti ben decisi alla serratura e si scendeva in fila, giù per le scale di granito. Uscendo dal portone, la vicina ci salutava dalla finestra, con la mano alzata, quasi come se stessimo partendo per le Americhe. Eravamo tutti sorridenti, nostra madre, i miei fratelli ed io. Portavamo nello sguardo l’entusiasmo per la giornata al mare che ci attendeva e i bagagli non sembravano poi così pesanti. Abitavamo a S. Michele, quindi la strada più veloce da percorrere, per arrivare alla fermata in Piazza Garibaldi, era via Fiorentino. Arrivavamo quasi senza fiato e aspettavamo sotto il sole che diventava sempre più caldo. Dopo una breve attesa, breve si fa per dire, sentivamo gli autobus arrivare e riprendevamo in mano i bagagli che avevamo appoggiato all’arrivo alla fermata. Ogni domenica le corse erano raddoppiate, per cui arrivavamo quattro autobus, due per via Pizzo e due per via Longobardi e i vibonesi sanno che il secondo, era il percorso più breve. Gli autobus arrivavano già pieni di passeggeri e salivamo a fatica, tra la gente e le borse che ostruivano il passaggio, poi l’autista chiudeva le porte, una bella schiacciata all’accelleratore e ripartiva. C’era chi cantava, chi suonava la chitarra, chi fumava (ai tempi si poteva fumare e i sedili erano provvisti di posacenere), chi guardava i fumi provenire dalle ciminiere del cementificio, che odoravano di uova marce. Passati i fumi, l’odore di cibo all’interno dell’autobus, ci arrivava dritto allo stomaco, eravamo tutti di bocca buona e alle dieci del mattino, avevamo già fame ma guai a mangiare qualcosa, avremmo dovuto aspettare ore prima di poter fare il bagno. Finalmente si arrivava a destinazione e gli autobus, vomitavano dalla loro pancia, persone, borse, ombrelloni e polpette fritte. Con il nostro carico ci dirigevamo verso la spiaggia a piedi e il percorso ci sembrava lunghissimo. Ci dirigevamo verso la spiaggia del Pennello o, qual si voglia, Capannina o Chiosco Azzurro, dal nome dei due chioschi che campeggiavano sulla spiaggia che, ai tempi era enorme mentre oggi è ridotta, per via delle mareggiate, ad un fazzolettino di terra. La musica dai due juke-box giungeva allegra alle nostre orecchie mentre lanciavamo occhiate languide alle altalene, già occupate e con la fila di ragazzini in attesa di poter salire e dondolarsi un po’. Appena arrivati si piantava l’ombrellone, si sistemavano le borse l’una accanto all’altra in maniera ordinata, ci toglievamo i vestiti, li appendevamo all’ombrellone ed eccoci già a piroettare nell’acqua limpida. Mia madre, seduta sotto l’ombrellone, ci osservava finchè non decideva di entrare anche lei in acqua. La sua idea di bagno era di entrare in acqua fino alla vita e poi restare ferma, in piedi, facendo attenzione che gli schizzi non le bagnassero i capelli, guai a disfare la sua pettinatura anni ’50! Tra scherzi e bracciate, arrivava l’ora di pranzo. I nostri stomaci erano voragini senza fondo e avremmo trangugiato di tutto e veramente di tutto c’era da mangiare. Prima di ogni cosa, i rigatoni al ragù di carne di maiale, poi ‘i pipi e patati’ a cui non mancava mai la foglia di basilico, le melenzane ripiene, la ‘pitta di pane’ di almeno due chili, la carne al sugo e, giusto per non restare a digiuno, le uova sode. Mangiavamo come dei maialotti, considerando che eravamo in quattro e c’era cibo per dieci persone. Intanto l’anguria stava al fresco, tra le onde del mare, aspettando il suo turno. Dopo aver mangiato fino a scoppiare, giocavano con la sabbia, scavando buche profonde e costruendo castelli o almeno, pensavamo che lo fossero. Io amavo molto scavare dei veri e propri tunnel e i miei scavi, erano così profondi da trovare l’acqua. mi piace ancora farlo, tanto da insegnare la tecnica anche ai miei figli. Fino alle cinque del pomeriggio niente bagno, studiavamo ogni stratagemma, ci sporcavamo con la sabbia, pur di immergerci ma il ‘no’ era categorico. Qualsiasi tentativo di sentire un sì, cadeva nel vuoto. Niente da fare! Alle quattro del pomeriggio di solito, iniziavano gli avvistamenti di qualche sventurata medusa che aveva osato spingersi a riva, così arrivava sempre qualcuno esperto in materia che con una canna, sbucata da chissà dove, tirava fuori dall’acqua la malcapitata, per depositarla sulla sabbia a sciogliersi al sole. Così, tra una cosa e l’altra, arrivava l’ora X e potevamo infilarci in quell’olio blu che amavamo tanto. La delizia durava sempre poco perché presto arrivava l’ora di andare. Si chiudeva l’ombrellone, si piegavamo gli asciugamani, si raccoglieva tutto e ci si avviava verso la fermata, dove sarebbe arrivato l’autobus, pronto ad ingoiarci di nuovo. Eravamo tutti stanchi ma felici e con le caviglie sporche di sabbia e le facce arrossate, salivamo sulla scaletta e forse, avremmo trovato un sedile libero, dove lasciar andare le membra stanche e bruciate dal sole. Noi eravamo così, felici con poco. Avevamo la ricetta giusta per esserlo, prendendo a piene mani ciò che la vita ci offriva. Concludo con una frase di Arthur Schopenhauer
“La nostra felicità dipende più da quello che abbiamo nelle nostre teste, che nelle nostre tasche.”

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