Bene o male purchè se ne parli… tutto fa brodo…
Scriveva Albert Camus: “Anche dal banco d’imputato è sempre gratificante sentir parlare di sé”. Come se quel “parlare di noi” bastasse a regolare i conti con la propria esistenza.
Ma è questo il motto che traspare anche dall’uso dei social.
La necessità di apparire fa utilizzare tutti i metodi e i modi immaginabili.
C’è chi scrive poesie o presunte tali per dimostrare una inesistente vena poetica, chi ostenta una bellezza costruita con filtri e ritocchi e chi, per “avere più carisma e sintomatico mistero“, per aumentare il numero dei suoi follower, non disdegna di esporre in maniera malcelata il proprio corpo o crea profili fake.
Nessuno capisce che il social è tutto un “baraccone circense“, dove si dà all’uomo comune di mostrarsi e crearsi l’alter ego che non corrisponde alla sua reale dimensione.
Apparire sui social sembra essere un desiderio nato dall’approvazione sociale, al voler essere accettati dagli altri.
Sappiamo tutti che oggi una foto pubblicata su un canale virtuale non è soltanto un’immagine statica di noi stessi.
È un modo per raccontare il nostro “status” dove siamo, con chi siamo, cosa stiamo facendo e provando in quel preciso istante.
La particolare forma di narrazione possibile, inoltre, permette agli altri di interagire su questo.
Commenti, likes… e tag.
“Continuiamo a bere del pessimo vino preoccupati che i calici siano di cristallo”.
Questa citazione fa riflettere su quanto l’apparire abbia valenza maggiore rispetto all’essere.
Siamo tutti d’accordo sul fatto che l’immagine è la prima cosa che si usa nell’interagire con gli altri. È logico che, vivendo di relazioni, l’apparenza diventi necessaria.
Da sempre l’uomo, in quanto essere sociale, ha avuto bisogno di essere accettato, amato e stimato.
Ma ora non staremo esagerando a proiettarci con così tanta insistenza in un mondo virtuale per il quale l’apparenza è un aspetto fondamentale?
Un mondo composto nella maggior parte dei casi da persone che nemmeno conosciamo, ma dalle quali vogliamo essere ammirati.
Molte donne abbinando certe foto a delle frasi filosofiche, vogliono dare l’impressione di non essere superficiali, interessate solo all’aspetto esteriore di una persona.
Vogliono dare l’impressione di essere anche colte.
Bellezza e cultura: sono queste le qualità molto ricercate nella nostra società.
Spesso certe frasi personali vengono abbinate a foto, diciamo inadatte alle persone in questione, allo scopo di attenuare la prima impressione negativa che potrebbe sorgere in un osservatore.
Il vanitoso ha bisogno di un pubblico e se non ce l’ha, lo improvvisa.
È alla continua ricerca di conferme, ha bisogno degli altri per alimentare il suo narcisismo.
In latino “vanitas” significa essenzialmente “inutilità”, “inconsistenza”, “mancanza di scopo”.
Ancora Leopardi parla di «infinita vanità del tutto».
L’aggettivo corrispondente non è da meno.
«Vani» sono i fantasmi nel poema di Dante e «vani» i fallimenti della storia sulla luna di Ariosto. “Invano” vuol dire tuttora “per niente”.
La vanità sta agli antipodi dell’essere, è vacanza dell’identità.
Cosa spinge le vanitose del millennio a fotografarsi a labbra strette, come se stessero baciando l’aria?
Oppure, in un’altra gettonatissima variante, la bocca è socchiusa.
Ma c’è anche quella per le meno timide e non sono poche, in cui è direttamente aperta.
E sotto, la cascata di commenti, diversi dei quali non ripetibili.
La domanda è: perché lo fanno?
Perché ci sono così tante donne che inondano i social network con i loro autoscatti in pose ammiccanti?
Domanda ingenua, dirà qualcuno, ma su cui comunque vale la pena riflettere.
Perché “alle donne piace provocare qualunque età abbiano“.
Si va dalle giovanissime, che si riprendono da ogni lato a favore di scollatura, ma anche le foto delle gambe, meglio se in costume, o i primi piani più fetish delle scarpe col tacco, oppure direttamente dei piedi nudi fino alle donne un po’ più mature… ma questo è un capitolo a parte ?
Angela Amendola