U jornu d’i morti

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La commemorazione dei defunti è una ricorrenza molto sentita e in ogni città, ci sono tradizioni che si trascinano nel tempo. Ovviamente non posso sapere cosa accada di preciso in tutto lo stivale, ma posso raccontare cosa succede a Vibo Valentia.

E non si tratta solo della visita ai nostri cari. Già dai giorni precedenti, le piazze limitrofe al cimitero si colorano di fiori e piante, portati dai venditori ambulanti.

Ce ne sono per tutti i gusti e tutte le tasche. Basta solo scegliere.

Spolverando i miei ricordi di bambina, ho davvero tanto da raccontare.  C’era una sorta di preparazione, perché  in quel giorno tutto fosse  perfetto per la visita dei nostri cari defunti. Perché prima che noi andassimo da loro, loro venivano da noi.

Non c’erano solo i fiori ma le pasticcerie profumavano di garofano e cannella, ingrediente basilare nelle “ossa dei morti” e si coloravano di frutti fatti con pasta di mandorle e zucchero. Solo a guardarli, ancora oggi, rischiamo di diventare tondi come un pallone.

La sera di Ognissanti, noi bambini, quando andavano a dormire, lasciavamo le scarpe in bella mostra , promettendo a noi stessi di restare svegli per poter vedere il morto che arrivava.

Dopo tanta fatica però, il sonno aveva la meglio e quindi, perdevamo quell’appuntamento così importante.  Al mattino appena svegli, il rammarico per esserci addormentati, durava giusto un attimo poi, sporgendo la testa verso il pavimento, cercavamo le scarpe e che gioia… erano piene di leccornie: l’osso dei morti, cioccolatini, caramelle e qualche monetina da dieci lire. Eh sì, i tempi erano quelli!

Le nonne invece, la sera preparavano il caffè per i defunti che sarebbero passati.

Si metteva sul tavolo il servizio buono, le tazzine fumanti di profumato caffè, la zuccheriera e i cucchiaini. Dopo andavano a dormire! Una volta sola, ci provai anch’io e suggestione o chissà cosa, passai la notte con i defunti a cui avevo offerto il caffè, ci fu un via vai, fino alle luci dell’alba.

Fu la prima e ultima volta che lo feci! Torniamo però, indietro. Le vetrine non erano adornate con zucche o veli neri ma mio papà, amava raccontare di quelle zucche rubate negli orti, intagliate con vera maestria, dopo aver messo all’interno una candela accesa, le posizionavano negli angoli bui della città.

Poi restavano nascosti per gustarsi la scena, spesso erano uomini che avevano alzato il gomito, a soccombere allo scherzo di quei ragazzini. Spaventati fuggivano via ma tanto il giorno dopo, sicuramente, avevano dimenticato tutto.

Dopo aver mangiato i dolcetti, ci alzavamo dal letto e la tradizione, voleva che si bevesse cioccolata calda, per gli adulti si aggiungeva l’anice nel caffè che profumava tutta la cucina, dove si intingeva l’osso che da bianco, diventava color cioccolato.

Non so come si facesse a mangiare così tanti dolci di prima mattina, oggi non potrei farlo, ma eravamo bambini e tutto andava bene.  Dopo esserci riempiti come maialotti, indossavamo l’abito più bello. Dovevamo renderci presentabili al cospetto di chi, con tanta generosità, ci aveva portato tutte quelle cose buone.

Andavamo a piedi al cimitero e la strada, costeggiata dai cipressi, sembrava lunghissima. Chi si avventurava in auto, doveva fare i conti con il traffico e il rischio di bruciare la frizione.  Il cimitero, come voleva l’editto di Saint-Cloud, si trova fuori dalle mura greche, nella parte più alta della città. Non ricordo molti defunti, l’unica era mia sorella Lisetta, morta a tre anni, prima che io nascessi.

Mia madre acquistava per lei, tre garofani bianchi, sempre quelli.  Mi prendeva in braccio perché baciassi quella foto ed io ero ben felice di farlo. Era la sorellina e anche adesso, lo è! Guardavo la foto di quella bimba con la veste rosa e un fiore in mano,  con i capelli neri e corti e una frangetta che le ricadeva sulla fronte.

Purtroppo era rimasta vittima di una terribile epidemia di meningite  tubercolare che nel 1958, aveva colpito tanti bambini, anche piccolissimi.

Dopo la visita, mia madre si chiudeva, insieme a papà, in un doloroso silenzio, non capivo, non potevo capire. Si tornava a casa a piedi, lentamente, senza alcuna fretta.

Arrivati a casa, ci si doveva cambiare immediatamente, per non sporcare di sugo gli abiti indossati.  Mentre mia madre cucinava, arrivavano i parenti con le ossa dei morti, e come se quello che avevamo trangugiato di mattina,  non fosse bastato, intrufolavamo la manina per acchiapparne uno, mentre mia madre ci lanciava uno sguardo severo.

Per il pranzo si invitava nonna, zia e parenti vari. Era quasi una festa, un modo per riallacciare quel filo tagliato dalla parca.

Oggi le cose non sono cambiate di molto, i miei cari defunti sono aumentati ma, dopo aver accompagnato mamma a visitare “la sorellina” e purtroppo anche papà, io ritorno da sola perché ho bisogno di raccoglimento.

Conosco il cimitero a menadito e a volte, passando davanti ad una tomba abbandonata, non posso fare a meno di lasciare un fiore.

Non dimentichiamoci di loro, dell’amore che ci hanno dato.

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