Terza e ultima parte
La maestra era rimasta vedova dopo solo otto mesi di matrimonio.
Il marito, il signor Tucci, era morto in guerra, lasciandola incinta del suo unico figlio.
Lo ricordo abbastanza bene, era studente universitario e talvolta, veniva in classe a salutare la mamma.
A lei brillavano gli occhi, quando lo vedeva. Era alto, credo, magro e anche lui portava gli occhiali. Viveva a Roma per motivi di studio, ma non so quale fosse la facoltà che lo teneva impegnato.
Ricordo anche un sacerdote, piccolo e molto anziano che veniva a trovarci, ci portava caramelle e i ritagli delle ostie. Don Nobile ci regalava un po’ di felicità e la sua benedizione.
Morì ad età molto avanzata, aveva superato i cento anni e davanti al suo feretro, sperai di incontrare la maestra che però non c’era.
Ero già una signorina, avevo circa diciotto anni, quando questo accadde ma ero là, con la voglia ancora di riabbracciarla.
Gli anni passarono, come normalmente accade e, fu nell’estate che mi portava dritta dritta a frequentare la quinta elementare, che scoprii da mia madre che la maestra, la mia amata maestra, aveva raggiunto l’età pensionabile e mi avrebbe lasciata.
Il primo giorno di scuola dell’ultimo anno delle elementari, pensavo di trovare le mie compagne piangenti e disperate e invece erano serene, come se la cosa non le toccasse.
Mi stupì, mi fece rabbia, non potevo tollerare quel comportamento ma tenni tutto per me. Entrata in classe, la maestra era lì ad attenderci e questo mi diede speranza, forse aveva cambiato idea, forse sarebbe rimasta con noi, con me. In realtà era venuta a congedarsi da noi, spiegandoci ciò che stava accadendo.
Ci disse che in ogni caso, ogni tanto, sarebbe passata a salutarci.
A me però, non poteva certo bastare! Ci presentò il nuovo maestro, era praticamente un ragazzino, appena uscito dalla scuola magistrale e sarebbe rimasto con noi, per tutto l’anno scolastico.
Sembrava un uccellino colpito dal fucile di un cacciatore dilettante, con quei capelli così strani e le labbra rosee, quasi bianche.
Lo odiai immediatamente. Da bambina studiosa e ubbidiente, divenni l’ultima della classe, non studiavo più ed ero elemento di disturbo. Spesso marinavo anche la scuola e restavo nascosta in casa. Se mio padre rientrava prima, mi nascondevo dentro l’armadio e ci restavo fino all’ora in cui sarei rientrata, se fossi andata a scuola.
Mi ero persa, avevo subìto il primo abbandono della mia vita ma non ero in grado di spiegarlo a nessuno. Non indossavo più il grembiule come le mie compagne e, mentre il maestro spiegava, camminando tra i bianchi, col dito lo seguivo dal di dietro.
Era la mia vittima sacrificale. Avrei voluto buttarlo fuori da quella classe e andare a riprendermi la mia signora Tucci. Ma non era possibile.
La maestra mantenne però la promessa: prima di ogni festività passava a salutarci e non vi so spiegare la gioia incontenibile che provavo in quei momenti, poi guardavo il maestro, e la realtà si presentava prepotente.
Agli esami di quinta elementare, lei c’era e volle interrogarmi ma non sapevo rispondere alle domande.
Non avevo studiato e non posso spiegare la vergogna provata quando stupita mi chiese: “Matera?” Cos’era successo? Perché non ero più la stessa bambina?
Era questo che voleva sapere ma non le diedi nessuna risposta. Ricordo che lasciai l’aula arrabbiata, perché in fondo era tutta colpa sua, lei mi aveva lasciata e aveva permesso a quell’implume uccellino di prendere il suo posto.
Oggi capisco quanto bravo fosse quel ragazzino che a soli diciannove anni, si era assunto la responsabilità della sua vita.
Di mattina era a scuola e di pomeriggio, studiava per poter conseguire la tanto desiderata laurea. Non aveva vizi, non aveva fronzoli.
Aveva solo tre paia di pantaloni e tre maglioni, che indossava, alternandoli. Sicuramente con lo stipendio percepito, aiutava la famiglia e si manteneva agli studi.
Molti, dovrebbero veramente prendere esempio da lui. Questo lo so oggi, la maturità mi ha portata a capire l’incomprensibile e l’odio che provavo, si è trasformato in ammirazione.
Dopo quell’esame, la signora Tucci si trasferì a Roma, per vivere accanto a figlio, che nel frattempo si era sposato.
Di tanto in tanto, veniva a Vibo e sembrava che io avessi le antenne, riuscivo a percepire la sua presenza. L’ultima vola che la vidi, avevo diciassette anni e nonostante la pioggia torrenziale, le corsi incontro.
Come sempre, lei mi disse: “Come ti sei fatta grande!”
L’abbracciai, come se avessi sentore che quella sarebbe stato l’ultimo abbraccio. Ne ebbi la conferma quando, la casa di Via Lo Stumbo, fu messa in vendita.
Sperai di incontrarla ancora, negli anni a venire (oggi sarebbe impossibile) ma mi consola sapere che, nella mia vita, ho avuto la fortuna di essere sua allieva e lei saprà sicuramente, che la porterò sempre nel cuore.
Fine