Anche se non so che direzione prendere, mi sento libera! Per poter fuggire e non farmi trovare, mi sono infilata dove gli alberi sono più fitti, in questo bosco che ho sempre visto solo dalla finestra.
Mi regolavo col cambio delle stagioni, col sole e la neve, anche se mai ho avuto la possibilità di goderne.
Ho segnato ogni cambio sul muro, graffiandolo con un chiodo arrugginito, arrugginito come me, ogni quattro graffi, un anno. D’inverno mi scaldavo con una stufa a legna ma spesso mancava l’acqua e non potevo lavarmi, puzzavo e camminando lasciavo la scia dietro di me.
Quando lui mi portò qui, mi sentii quasi una principessa, perché nessun uomo aveva fatto questo per me: rinunciare a tutto pur di salvarmi!
Ma salvarmi da cosa? Da chi?
Lui ripeteva spesso di essere l’unico essere vivente disposto a darmi il suo amore, che neanche la mia famiglia mi era così legata.
Ci avevo creduto, mi ero fidata!
Ma poi, scemando il sentimento d’amore, o quello che credevo tale, la voglia di vita iniziò ad urlare dentro di me. Nascosta in quella vecchia baita, da sola, senza tivù e senza una radio, avevo perso le speranze di vivere una vita normale.
Lui ripeteva: “Non ti rendi conto della fortuna che hai avuto ad incontrarmi? Sai quante vorrebbero essere al tuo posto?” All’inizio sorridevo felice ma poi quel sorriso si spense.
“Vedi? Neanche la tua famiglia ti ha mai cercata…”
Ma come avrei potuto saperlo, senza mezzi d’informazione?
Spesso restavo da sola per giorni interi, a volte settimane, lui arrivava, mi portava da mangiare e poi spariva di nuovo, sicuro che non sarei fuggita. Aveva fatto in modo che mi fidassi solo di lui.
Anche se nessuno mi avrebbe visto, i miei abiti non avevano fronzoli o scolli profondi, niente più jeans e maglietta, dovevo indossare solo degli informi monacali e d’inverno, maglioni enormi che coprissero ogni accenno di una femminilità negata.
Quando usciva bloccava la porta dall’esterno, per proteggermi da eventuali intrusi che avrebbero potuto farmi del male, così diceva, in realtà, io ero sua prigioniera. Non potevo truccarmi, i miei ombretti e rossetti erano finiti nello scarico del gabinetto, non avevo uno specchio, i miei capelli arruffati, si erano allungati fino alle natiche.
Ogni tanto provavo a specchiarmi nell’acqua del catino ma ne usciva solo un quadro devastato. Avevo quindici anni quando arrivai in questo luogo sperduto e, facendo due conti, oggi dovrei averne venticinque. Mi ha strappato alla mia famiglia, alla scuola, agli amici, alle serate seduta sul divano a mangiare pop-corn.
Una volta rimasi incinta, una volta sola, le mestruazioni non arrivavano e lui tornò alla baita con un test di gravidanza, il risultato fu positivo. Si arrabbiò, urlò come un pazzo. Urlava che io non ero in grado di crescere un bambino. Fu la prima volta che mi picchiò.
Lo fece con una tale violenza da restare ferma in un angolo per giorni, mentre il sangue colava dalla mia vagina. Avevo ricevuto troppi calci sulla pancia, quella creatura non poteva uscirne indenne!
Ricordo che quando finì di picchiarmi, uscì sbattendo la porta, talmente forte, che le pareti tremarono. Sparì per giorni, lasciandomi senza cibo, né cure. Avevo dolori ovunque ma ricordo che piansi, piansi tanto per il mio bambino, per l’umiliazione e per i dolori. Non mi venne in mente di fuggire o almeno, di tentare.
La paura mi teneva incatenata, se mi avesse ritrovato?
Probabilmente mi avrebbe ucciso, urlandomi che ero solo un’ingrata, una poco di buono che non vedeva l’ora di approcciarsi ad altri uomini. Mi sentii in colpa. In fondo lui era buono, lui provvedeva a me ed io non avrei dovuto restare incinta!
Che diamine, aveva ragione lui!!
Il vento mi colpisce il viso, esattamente come i suoi schiaffi che arrivavano improvvisi ed inaspettati, caldi, dolorosi, umilianti! Bastava che io pronunciassi la parola giusta o sbagliata al momento giusto o sbagliato e la sua mano arrivava sul mio viso stupito, lasciando la mia pelle arrossata e infuocata mentre i suoi occhi erano come due spade.
Così smisi anche di parlare, chiudendomi sempre di più in me stessa.
Ma il mio silenzio non bastava più, voleva a tutti i costi che io gli dessi un motivo per picchiarmi, così da rendermi ancora più sottomessa. Allora le sue domandi divennero incalzanti e per paura rispondevo con un filo di voce e volava la sua mano sul mio viso.
Erano scenate di gelosia, vecchi ricordi, di quando mi aveva visto ridere col compagno di scuola o quando avevo accettato un passaggio perché pioveva.
È ovvio che non ci fosse altro! Forse era stanco di me e allora, perché non mi lasciava andare?
Perché continuava ad allontanarsi per periodi sempre più lunghi, chiudendo la porta col lucchetto?
Forse sperava di trovarmi morta?
In fondo bastava che “dimenticasse” di chiudere ed io sarei sparita per sempre dalla sua vita. Invece no, voleva che restassi sua prigioniera.
Continuo a spostarmi, leggera come l’aria, come aria sono uscita da quelle pareti segnate dal mio dolore. Non so come io abbia fatto, so soltanto che d’improvviso mi sono trovata fuori.
La notte sta quasi per finire e mentre i raggi del sole che nasce sembrano lingue di fuoco che escono dalla bocca di una vipera, prepotenti e rossi, alla ricerca di uno spazio tutto loro, un ricordo si affaccia alla mia mente e rivedo il mio uomo e, quella paura che era ormai la mia unica compagna, stranamente mi ha abbandonata.
E non mi fa paura non aver paura. So solo che l’ultima volta è stato più violento di tutte, ha sbattuto la mia testa sul pavimento e ho percepito la strana sensazione di una lampada che si sta fulminando, la luce intermittente e poi il buio improvviso.
E poi sono passata attraverso il muro. Non m’importa cosa dirà il mondo, il mondo non è più affar mio. Io sono libera!
Non ho fame, non avverto la stanchezza, i miei piedi sono come ali di gabbiano, il mio corpo non pesa, non puzza, non sento dolore, freddo, non sento niente!
Forse vagherò per l’eternità in questo bosco solo mio, ma credetemi, solo adesso sono davvero libera!
Mai più violenza sulle donne!
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