Questa mattina, dinnanzi a una tazzina di caffè, è davvero piacevole scambiare quattro chiacchiere con l’amico Pino Vitaliano.
Mi è capitato di leggere che il caffè è il compagno ideale del filosofo: “Nel caffè si incontrano il possibile e il reale. È l’unica possibilità di rivincita del pensiero astratto chiuso nelle Accademie: una scintilla di filosofia”.
Questa premessa calza a pennello dal momento che Pino è un docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico “Majorana” di Girifalco.
Io lo chiamo da sempre “il filosofo”.
Ma Pino Vitaliano ha soprattutto la passione per la scrittura. La sua penna ci regala una scrittura che ammalia, seduce, guidata da una immaginazione fervida e a tratti inquieta.
Una scrittura che non sta mai in superficie, che si interroga, che graffia, scava nelle profondità per portare alla luce la bellezza di un mondo nascosto che vive di emozioni, di sentimenti. Una scrittura intima, che lascia un segno.
– Allora, Pino, entro nel vivo di questa conversazione sottoponendo alla tua cortese attenzione una breve riflessione di Dacia Maraini.
– “Preferisco pensare alla scrittura come ad una testimonianza delicata, un gesto di affetto nei riguardi di una memoria che se ne va e muore anzitempo. Una esperienza che ti fa cambiare l’angolo dello sguardo, un arricchimento di prospettiva. Accompagnata forse da un infantile desiderio di seduzione.”
– Cosa pensi della scrittura?
– Ho il cuore doppio, esattamente come il mio pensiero, che è anche obliquo. Da questa doppiezza e da questa obliquità, nasce il mio desiderio di scrivere. Necessariamente, per non morire, scrivo. A volte, vorrei rinunciare, altre, sento la smania febbrile di farlo: i due cuori. E, quando decido di farlo, taglio in due il mio pensiero e la mia mente si colora: il pensiero obliquo. Perché scrivere, allora? Perché la scrittura ha la capacità di dire l’indicibile, di raccontare l’ineffabile, di narrare, di affabulare, di creare mondi come vorremmo che fossero, di trasportare pensieri, di disvelare verità nascoste, di nascondere la bruttezza per difendere il mondo e renderlo più bello, per guarire le ferite dell’anima, per consolare il dolorante spirito. Scrivere, per nutrire le anime cercanti; per dare sangue alla memoria, per vivificare le nostre radici, per far rinascere e nascere la curiosità e l’incanto nei nostri occhi, che hanno perso la capacità di stupirsi dinanzi alle bellezze del mondo. La scrittura è un gesto ruvido e leggero al tempo stesso, è la copula necessaria che permette al pensiero di riemergere dagli abissi profondi e imperscrutabili dell’inconscio, è l’eros sublime con cui il finito si infinitizza. La scrittura guarisce le ferite dello spirito. E chissà che un giorno non torneremo ad amare la lettura e inizieremo, finalmente, anche a scrivere.
– Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini». Lo scriveva Benedetto Croce. Ogni volta che mi capita sotto gli occhi questa citazione mi soffermo sempre a pensare. Ma cos’è la poesia?Quale ruolo può avere il poeta nella società contemporanea?
– Ci sono parole che rimangono impigliate fra i denti, come pesci nelle reti, e muoiono perché non riescono a liberarsi. Il loro ricordo vaga nella memoria, fin quando il poeta non riuscirà col suo sguardo dall’alto (epopteía) a farle rivivere nella coscienza. A volte, così, nasce la poesia. Il poeta è importante perché, come gli altri artisti, consente agli uomini di stabilire un contatto con l’Assoluto e di trovare quelle risposte che la scienza, per esempio, è incapace di dare.
– “L’essere pieno di meraviglia è proprio del filosofo. Sì, il principio della filosofia non è altro che questo…”
È il pensiero di Platone. Cos’ è la filosofia per te?
– La Filosofia è per tutti, ma non tutti sono per la filosofia.
Qualcuno potrebbe pensare che la frase sia mia. Aristotele, nel IV secolo a. C., a chi gli chiedeva a cosa servisse la filosofia, rispondeva che la filosofia non serve, perché non è serva di nessuno, ma che, anzi, essa è scienza delle scienze, o scienza prima. In realtà, un servizio, anche se non da serva, ma di ausilio, la filosofia lo dà a tutti i saperi, in quanto offre loro una metodologia di ricerca. Non solo, ma la filosofia sta ai saperi come la cravatta a un vestito. Infatti, si dice la filosofia della vita, la filosofia della storia, del diritto, dell’ economia, della politica, della scienza, addirittura del calcio e di qualsiasi altra cosa ti venisse in mente. Se questa non è primalità della filosofia… A proposito, la filosofia, a rigor di logica, non è un sapere, e nemmeno una conoscenza. Forse, neanche una scienza. È un modus operandi del dubitare. La filosofia è l’arte del problematizzare. Insomma, la filosofia è quell’atteggiamento da rompiscatole, che i filosofi adoperano per mettere in discussione le presunte verità delle presunte scienze.
– So che sei un appassionato di mitologia classica. Esiste un legame tra mito e discorso filosofico?
– Il mito precede la nascita della Filosofia. Pindaro, Esiodo, Omero hanno cercato di dare risposte sul cosmo, gli dei, il mondo, attraverso il linguaggio poetico e mitologico. Poi, si manifesta il Logos e tutto, o parte del tutto, si disvela. Il mito cederà il passo alla filosofia, ma non smetterà di esistere. Diciamo che, da quel momento in avanti, il mito camminerà affianco alla filosofia e la seguirà come un’ombra.
Il mito, però, va letto soltanto nei suoi simboli, senza stravolgerlo, senza usarlo per alcun fine utilitaristico, senza sconvolgerne la semplice bellezza originaria, allora ci disvela la sua verità. Almeno, così dice Italo Calvino. E io sono pienamente d’accordo col suo pensiero. Il mito di Narciso, per esempio, è stato interpretato ad usum delphini dalla psicologia, inventando una sindrome che, secondo me, ha poco o nulla a che fare con la verità (quella nascosta e quella manifesta) del racconto. Narciso ama se stesso, non si interessa degli altri, è distante dal mondo, indifferente, chiuso nella sua torre eburnea, lontano dal suo sguardo, ma insidiato dallo sguardo degli altri. Narciso non ha interesse a sottomettere nessuno, a manipolare nessuno, a piegare alla sua volontà nessuno. Non ha, soprattutto, la volontà di distruggere nessuno. Un po’, ricorda il motore immobile di Aristotele: atto puro, pensiero di pensiero, che riflette solo su se stesso, che muove il mondo senza muoversi. Narciso, causa causante incausata, dunque? Forse. Comunque, in lui, non c’è assolutamente nessuna volontà di distruzione – almeno, non consapevolmente – salvo distruggere solo se stesso, nel momento in cui il suo sguardo vede per la prima volta la sua immagine riflessa. Si vede, si innamora di sé, e muore. Lo sguardo, nel mito in genere, ha un ruolo incredibilmente importante, perché apre finestre sul mondo profondo e abissale dell’Anima umana. Dovremmo parlarne seriamente, ma senza cercare necessariamente pseudo significazioni strumentali che possano compiacere o servire le nostre astruse e deboli teorie. Senza, cioè, capovolgere quella verità, che esso nasconde per proteggerla dagli sguardi profani della menzogna.
– A proposito del tuo libro, “I ricordi di un ulisside”, da dove è partita l’ispirazione per scriverlo? Cos’hai maggiormente amato durante la stesura? Qual è il messaggio che hai voluto lanciare con questo libro?
– I ricordi di un ulisside, inizialmente, erano dei post che pubblicavo sul mio profilo di Facebook. Ho notato che attiravano soprattutto l’attenzione delle mie “amiche”. Anzi, furono proprio loro a incitarmi a farne una raccolta e pubblicarla, perché li trovavano particolarmente interessanti. Per la cronaca, al momento della presentazione, nessuna di loro si fece vedere o acquistò successivamente il libro. Erano pensieri che io definivo crepuscolari, perché li scrivevo di notte e perché la loro scrittura era intimista e un po’ ermetica. Insomma, erano una sorta di confessiones, che descrivevano bene il momento di crisi profonda che stavo vivendo. Qualcuna delle mie lettrici si era soffermata sul carattere femminino della mia scrittura, perché – secondo lei – era fortemente introspettiva e indagatrice; una scrittura coraggiosa che si era spinta fino alle profondità abissali dell’anima e ne aveva guardato in faccia il dolore. Dopo la mia iniziale ritrosia, raccolsi quei pensieri e li mandai al poeta Dante Maffia, mio amico, per avere un suo giudizio. Avrei voluto svilupparli, per tirarne fuori tanti racconti dell’anima. Ma lui mi consigliò di lasciarli così com’erano e mi restituì la email con una prefazione per la pubblicazione del libro. Li chiamai ricordi di un ulisside, perché credo che in ogni uomo mediterraneo ci sia l’anima di Ulisse. Un’anima tormentata e continuamente in viaggio verso se stessa. Io ho rivissuto i tormenti delle mie passioni, mi sono lasciato trafiggere dallo sguardo severo delle donne che hanno attraversato la mia vita, mettendo a nudo le mie debolezze e la mia fragilità dinanzi ai naufragi continui del mio peregrinare. Atena, Calipso, Nausicaa, Penelope, Circe sono le peculiarità degli amori che ho vissuto o che ho evitato o sfiorato appena. Atena, l’amore consapevole; Calipso, l’amore nascosto; Nausicaa, l’amore proibito; Penelope, l’amore impossibile; Circe, l’amore magico. Proprio questi momenti ho amato di più nella stesura del libro. Cioè, il riproporre alla coscienza quegli eventi e riviverli nella loro pienezza emozionale. Non ho voluto lanciare alcun messaggio, perché non credo che ce ne fosse la necessità. Ognuno di quei ricordi è un discorso aperto che il lettore può chiudere a suo piacimento o continuare a sviscerarne il contenuto. È questa la particolarità del libro.
– Ulisse, l’eroe multiforme, il πολύτροπος (poliùtropos), “la mente colorata”, ha sempre affascinato tutti, poeti, scrittori, fino ai cantautori dei giorni nostri. Cosa c’è in te di questo uomo che intraprende un lungo viaggio esistenziale alla ricerca della sua identità?
– Odisseo è il primo filosofo del mondo occidentale. E non solo secondo me. Questo dimostra quanto sia sottile il limite che c’è tra il mito e la filosofia. Odisseo sbarca su Lachea, l’isola di Polifemo (colui che conosce molte lingue), il figlio di Poseidone e suo acerrimo nemico. Omero narra che, alla vista delle orme di piedi spaventosamente grandi, i compagni di Ulisse presi da terrore avrebbero voluto tornare alle navi e andarsene, perché immaginavano che potessero appartenere a un terribile mostro gigantesco. Tutti ebbero paura. Lui, no. La curiosità smodata e il coraggio di accogliere e di misurarsi con la verità (aletheia), che potrebbe essere spaventevole e mortifera, fanno di Ulisse un filosofo. E la sua mente colorata – come dice Citati nel suo libro – si dimostrerà policroma proprio in quella circostanza. Quando, cioè, giunti nell’antro del ciclope e fattane la terribile conoscenza (Polifemo divora vivi alcuni dei suoi compagni), tutti sono d’accordo che bisogna uccidere il mostro. Ulisse si oppone spiegando (ecco il suo pensiero duale e policromo) ai suoi compagni che, una volta ucciso Polifemo, non sarebbero più potuti uscire dalla grotta perché non sarebbero stati in grado di smuovere il masso che chiudeva l’uscita. Il resto è noto. Odisseo, dunque, non è propriamente un eroe. Gli eroi – come dice il mio amico storico Ulderico Nisticò – agiscono di impulso e senza pensarci; sono esseri irrazionali, al contrario di Ulisse che la ragione (logos) la mette sempre in atto. Mi sono lasciato affascinare da questo, e non da altri Odisseo. Un antieroe, dunque, che vive la sua esistenza nel continuo tormento della conoscenza e nella consapevolezza che il suo viaggio non avrà mai fine.
– Pino, quanti libri hai scritto?
– Ho scritto cinque libri di cui uno l’ho aggiornato ed è in visione ad alcune case editrici. Ci sarebbe anche quello che sarà pubblicato dalla tua casa editrice.
– “Religione e tradizione, logica e tecnica nascono dallo stesso seme: collegare. Vivere è connettersi, in cielo e in terra, all’altro che fu, che c’è, che sarà. La Tradizione è la via del ritorno. La Tradizione è ciò che ci riconnette all’origine, è quel sentiero “non interrotto” che ci riporta là, dal luogo dove proveniamo. Preferire la tradizione all’istante…”. Queste le parole di Marcello Veneziani, un autore di cui entrambi amiamo la scrittura. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
– “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”, diceva il grande compositore Gustav Mahler. Tradizione deriva dal verbo latino tradere, tradire. Tramandare, dunque, significa tenere accesa la fiamma dello spirito di un popolo col ricordo. Ricordare, per mantenere in vita le proprie radici, la propria identità, la propria cultura. È importante che i ragazzi conoscano le tradizioni della comunità in cui vivono. Intanto, per avere consapevolezza della loro storia, della loro provenienza. Il mezzo più efficace per tenere viva la memoria è la conoscenza del dialetto. Per i giovani, apprendere la loro lingua originaria – quella, cioè, dei loro padri e dei loro nonni – significa venire a conoscenza di una visione del mondo unica e irripetibile, di una ricchezza da custodire gelosamente. Il dialetto ha una sua dignità di lingua; una lingua che, seppur solamente descrittiva, è il codice identitario di un popolo che lo distingue da qualsiasi altro. Il dialetto, infatti, racchiude la memoria storica della nostra comunità, e smarrirlo significherebbe perderne anche la testimonianza più autentica. Il suo recupero, quindi, è di vitale importanza, per la sopravvivenza della nostra cultura popolare. Il dialetto è anche un modo di leggere e di raccontare la vita, ma è pure il luogo dell’anima che custodisce le tradizioni, gli usi, i costumi, i modi di dire, la storia e le radici di una civiltà molto antica. Noi pensiamo in dialetto, formuliamo pensieri in dialetto, ragioniamo in dialetto, parliamo e addirittura sogniamo in dialetto. Anche i nostri sensi guardano, respirano, toccano, sentono, assaporano in dialetto. Il dialetto, per concludere, è il collegamento con le nostre origini, l’anima del nostro universo, il codice identitario della nostra “piccola patria”, una lingua massimamente intraducibile in italiano.
– E’ l’arte suprema dell’insegnante: risvegliare la gioia della creatività e della conoscenza.
(Albert Einstein)…Sei d’accordo con Einstein? Che rapporto hai con i tuoi allievi?
– Viviamo in un tempo in cui il mercato esige che i giovani apprendano competenze tecniche che consentano loro di produrre il massimo con il minimo sforzo. Ma, quando capiranno, che la tecnica è diventata “il soggetto della storia” (Galimberti), mentre l’uomo, con il suo carico di sogni, irrazionalità, fantasia, desideri, emozioni, è stato messo ai margini di un tempo che non è più suo, è stato disumanizzato in nome della santa prestazione? Non hanno capito nulla. O, forse, lo hanno capito fin troppo bene, perché il sistema politico-economico vuole la tecnica come “fine”, non più come “mezzo”. Il “mezzo sono diventati i nostri alunni, sempre più assillati dalla “massima prestazione con il minimo sforzo”. Bisogna tornare alla Filosofia, al senso critico, all’autonomia di giudizio, al fare creativo. C’è bisogno di una ribellione civile, per poter riconquistare la nostra umanità. Il compito dell’insegnante nella scuola, come dice Einstein, dovrebbe essere quello di risvegliare nei ragazzi “la gioia della creatività e della conoscenza”. Conoscenza, e non competenza. Abbiamo bisogno di individui capaci e autonomi. Soprattutto, liberi, e per essere liberi bisogna conoscere. Il mio rapporto con gli alunni? Sicuramente un rapporto incentrato sulla liberalità, sul riconoscimento reciproco e sull’empatia.
– Fare il genitore è, forse, il mestiere più difficile. Tu come lo affronti? Sei un padre complice, autoritario, permissivo…?
Che rapporto hai con i tuoi due figli?
Con i figli, è un rapporto assolutamente difficile. Mi piace il dialogo e il confronto. Ho due figli maschi (29 e 24 anni), con peculiarità diverse, con esigenze diverse. Diversi anche caratterialmente, ma entrambi affettuosi. Ci siamo anche scontrati, a volte, ma ho sempre sentito il loro amore, mai venuto meno. Sono un padre premuroso, complice, forse in tantino permissivo e protettivo, ma ho sempre desiderato che fossero liberi nelle loro scelte. E, in questo, li ho sempre sostenuti. Avrei voluto che seguissero le mie orme nell’arte marziale del karate (sono un maestro cintura nera 5° Dan), ma non c’è stato nulla da fare. Cesare ha intrapreso la via dell’arte: canta, recita, suona, compone e studia filosofia; Antonio ha giocato a calcio, ora va in palestra e ha altri interessi che non sono il karate. Mi è mancato, con loro, il confronto con lo studio negli anni che sono stati studenti nel mio liceo. Non sono stati miei alunni, ma mi sarebbe piaciuto averli in classe con me. Sono sicuro che ci saremmo divertiti.
– “Tutti hanno fede in Dio sebbene nessuno lo sappia. Perché chiunque ha fede in se stesso e questo, moltiplicato all’ennesimo grado, è Dio. La somma totale di tutto questo è Dio. Noi possiamo non essere Dio, ma siamo di Dio, anche solo come una piccola goccia d’acqua è dell’oceano.” Mahatma Gandhi. Cosa pensi tu a riguardo? Qual è il tuo rapporto con la fede?
Il mio rapporto con l’Assoluto è prettamente filosofico. Non sono un uomo di fede, anche se ho provato a cercare Dio, ma senza mai trovarlo. Come scrive Giuseppe Berto, sento anche io quel vuoto di Dio, quella vertigine dell’abisso, che aveva anticipato il profeta Nietzsche nel suo Zarathustra. Mi piace pensare, però, a uno Spirito dell’universo che possa accogliere le anime dopo il loro distacco terreno. Comunque, non ho mai affrontato questo aspetto con una certa urgenza.
– Esiste un libro che ha avuto una grande influenza nella tua vita?
Un libro? Forse, più di uno, ma se proprio devo sceglierne uno dico L’ultima tentazione, di Nikos Kazantzakis, autore anche di Zorba il greco. Un libro che mi ha fatto molto riflettere sull’esistenza umana di Cristo.
– Può uno scrittore distinguere tra le sue opere quella preferita? Tu quale preferisci?
– I libri che uno scrive sono come i figli: si amano tutti alla stessa maniera. Non riesco a discriminare. Potrei dire, quello che devo ancora scrivere, ma sono certo che non lo preferirei agli altri.
– C’è uno scrittore che consideri il tuo mentore?
– Mi piacciono tanti scrittori. Mi è, onestamente, difficile dire chi mi abbia ispirato. Nella narrazione, più d’uno, a cominciare da Berto. Ma anche Giulio Guidorizzi, Buttafuoco. Come scrittura, non saprei. Mi pare, in questo, di avere trovato uno stile quasi originale. Quasi, dico, perché l’originalità, secondo me, non esiste.
Caro Pino, l’intervista è terminata. Sono tante le domande che avrei voluto farti. Sono certa, però, che ci sarà un’altra occasione. Magari, quando pubblicherai il tuo nuovo libro con la Casa Editrice “Accademia Edizioni ed Eventi”.
Ti ringrazio tanto.
A presto!
Piera Messinese
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