La disputa territoriale fra israeliani e palestinesi riguarda luoghi frequentati da secoli dalle due parti in cui sono state combattute guerre e continue invasioni.
Alla base del conflitto c’è un problema di reciproco riconoscimento: la maggior parte degli israeliani ritiene che il legame dei palestinesi con i luoghi della Bibbia non sia forte quanto il loro, mentre moltissimi palestinesi considerano gli israeliani alla stregua di invasori stranieri che non hanno alcun diritto di stabilirsi in una terra che loro abitano da secoli.
L’attuale situazione è frutto di uno stallo iniziato con la Guerra dei Sei Giorni, combattuta nel 1967 al termine della quale Israele occupò tutta la Cisgiordania e soprattutto Gerusalemme Est, la porzione della città che la maggior parte della comunità internazionale, ancora oggi, assegna ai palestinesi.
Da allora Israele ha progressivamente ceduto pezzi dei territori conquistati – come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – a forme di autogoverno palestinese, ma mantenendo il diritto di intervenire militarmente in tutti i territori, e di costruire insediamenti in varie parti della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.
Dall’altra parte, i palestinesi hanno cercato a lungo di trovare il modo di sconfiggere e cacciare definitivamente gli israeliani.
Quando hanno capito che non era più possibile a causa dell’accresciuta potenza militare di Israele, diversi gruppi radicali hanno scelto di passare alla lotta armata, legittimata anche da quelli meno radicali, per fare pressione affinché le autorità israeliane restituissero pezzi di territorio.
Tutto questo si innesta in una situazione politica complessa: da tempo, infatti, entrambe le parti stanno attraversando crisi di cui ancora oggi non si vede la risoluzione.
In Israele negli ultimi due anni si sono tenute ben quattro elezioni parlamentari, nessuna delle quali ha prodotto una maggioranza stabile.
In Palestina le ultime elezioni presidenziali si sono tenute nel 2005, mentre le ultime parlamentari nel 2006 (il loro esito ha prodotto una sanguinosa guerra civile). Nuove elezioni presidenziali e parlamentari vengono periodicamente indette da anni senza però mai essere organizzate per davvero ed ancora oggi il gruppo dirigente dell’Autorità Palestinese è quello che ruotava attorno allo storico leader Yasser Arafat, morto nel 2004: uomini molto anziani ormai poco a contatto con l’elettorato palestinese, eppure assai restii a cedere il proprio potere.
Non aiuta il fatto che in Israele e nei territori governati dai palestinesi la gestione della pandemia da coronavirus sia stata molto diversa.
L’escalation di questi giorni è stata innescata da un’antica disputa legale che la Corte Suprema Israeliana avrebbe dovuto risolvere lunedì 10 maggio con una sentenza definitiva, poi rinviata a causa delle tensioni crescenti.
La disputa riguarda Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est che ha una storia ingarbugliata e controversa, in un territorio che gran parte della comunità internazionale assegna ai palestinesi.
Da decenni alcune famiglie palestinesi rischiano di essere sfrattate da una casa che venne donata loro dal governo della Giordania, con l’appoggio dell’ONU, nel 1956, quando Gerusalemme Est era controllata dalla monarchia giordana.
Il problema però è che quei terreni su cui sono sorti gli immobili, erano di proprietà di alcune comunità di ebrei che si erano allontanate a causa delle violenze della guerra del 1948.
La legge israeliana prevede che tutti gli ebrei che hanno lasciato i propri beni nel 1948 possano rientrarne in possesso: il problema però è che la stessa prerogativa – chiamata anche “diritto di ritorno” – è vietata ai palestinesi.
A complicare ulteriormente le cose, poi, ci si è messo il calendario.
Più o meno negli stessi giorni quest’anno è caduta sia la fine del Ramadan, il mese sacro per i musulmani che spesso coincide con affollatissime manifestazioni di protesta soprattutto a Gerusalemme (quest’anno represse con più forza del solito dalla polizia israeliana), sia il Giorno di Gerusalemme, una ricorrenza in cui gli israeliani nazionalisti celebrano quella che chiamano la «riunificazione» di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni: in altre parole, l’occupazione militare israeliana di territori che la comunità internazionale ritiene spettino ai palestinesi.
Come dire “il diavolo e l’acqua santa” che si sono dati appuntamento.
In un certo senso, per Hamas, i fatti di Sheikh Jarrah e le solite manifestazioni del Ramadan erano un’occasione imperdibile per mettersi a capo delle proteste e riaffermare la propria presa sull’elettorato palestinese.
L’occasione è stata colta: Hamas ha di fatto infiltrato i movimenti di protesta con i propri membri, alimentato la tensione con i propri mezzi di comunicazione e soprattutto superato esplicitamente quella che il governo israeliano considera una linea rossa, cioè la sicurezza degli israeliani che abitano a Gerusalemme e Tel Aviv, prese più volte di mira dai lanci di razzi compiuti in gran parte proprio da Hamas.
L’espediente sembra aver funzionato e sui giornali israeliani ci sono diverse analisi secondo cui Hamas avrebbe già «vinto», in un certo senso.
Il Times of Israel ha scritto che sebbene Hamas possa «perdere la guerra contro Israele oppure uscirne ammaccata quando finiranno i combattimenti», ha già vinto la battaglia per il controllo delle proteste con Fatah, che infatti negli ultimi giorni si è fatta sentire pochissimo.
Intanto il peggioramento del conflitto tra l’esercito israeliano e la Striscia di Gaza sta destando enormi preoccupazioni in tutto il mondo, soprattutto per il continuo scambio di razzi tra le parti, con conseguenti perdite anche civili.
Ed immancabile interviene il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha rilasciato un comunicato ufficiale nel quale critica le azioni di Israele nei confronti della Striscia di Gaza e della popolazione palestinese sul territorio, a fronte anche dei recenti attacchi contro fedeli musulmani presso la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme e lo scambio di razzi tra le parti.
Nel comunicato, riportato anche sull’account di Twitter del presidente, si legge: “Le azioni di Israele, che sono contrarie alle decisioni delle organizzazioni comuni dell’umanità, ai diritti umani fondamentali, al diritto internazionale e a tutti i valori umani, devono essere fermate immediatamente”… bah verrebbe da dire “ma tu guarda da che pulpito viene la predica!”.
Perché Erdogan ce l’ha tanto con i curdi e i curdo siriani in particolare?
Perché sono in lotta per il pieno riconoscimento di un proprio Stato, il Kurdistan, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, quando si sgretolò l’Impero Ottomano.
I curdi sono una minoranza etnica divisa tra Iraq, Iran, Turchia e Siria, che rivendica la propria indipendenza e autonomia politica e culturale. Essi rappresentano il quarto gruppo etnico più grande del Medio Oriente: la loro popolazione è stimata in circa 35 milioni di persone.
I curdi sono a maggioranza musulmana sunnita e formano una comunità distintiva, unita attraverso razza, cultura e lingua, anche se non hanno un dialetto standard.
Ogni gruppo nazionale, però, si differenzia dall’altro e a solo titolo di esempio i curdi turchi, i curdi siriani e i curdi iracheni, insieme hanno combattuto contro l’Isis.
Questi, guarda caso, sono i gruppi finiti nel mirino di Erdogan anche perchè i curdi iracheni hanno da tempo una loro regione autonoma all’interno dell’Iraq (il Kurdistan iracheno) ed i curdi siriani hanno il controllo della regione che abitano (il Rojava).
Così i militari turchi ogni tanto bombardano quelle aree montuose che considerano una retrovia del Pkk, ovvero, secondo Erdogan, basi di Ocalan e, quindi, territori dell’organizzazione che in Turchia è fuorilegge.
Per questo motivo “colui che si ritiene Novello Sultano”, dopo aver trasformato Santa Sofia in Moschea coprendo con tappeti i simboli cristiani, a tempo perso bombarda e attacca i curdo-siriani fin da quando hanno costituito l’autogoverno del Rojava considerando la loro presenza un rischio.
Ma essendo curdi siriani e curdi iracheni alleati degli Usa nella lotta all’Isis, Erdogan ha dovuto sopportare (si fa per dire) fino a quando Trump ha ritirato le truppe Usa nella zona dando di fatto il via libera al massacro.
Trova le differenze rispetto a quello che sta accadendo in Israele e nel caso le trovi, avvisami perché onestamente non comprendo l’opportunità del suo tweet…
E intanto il reattore numero 4 di Chernobyl si è risvegliato, quello stesso che fu all’origine del disastro avvenuto il 26 aprile 1986.
È stato rinchiuso in un enorme sarcofago di cemento armato ricoperto da una volta in acciaio rinforzata ma sotto sotto, arde proprio mentre il premier Draghi annuncia la ripartenza anticipata per il turismo in Italia (il Belpaese gioca d’anticipo sul resto d’Europa, e introduce per primo da metà maggio il green pass per spostarsi).
Nel Regno Unito il primo ministro britannico Boris Johnson ha affermato che sta per eliminare le restrizioni proprio mentre Singapore restringe le maglie dei controlli in risposta a una riacutizzazione legata alla variante indiana.
Già perchè in India e Brasile si stanno consumando vere e proprie catastrofi umanitarie.
Secondo le analisi di Bloomberg, il numero totale di casi in tutto il mondo è aumentato a 153,8 milioni. Il bilancio delle vittime supera i 3,22 milioni. Nel mondo nelle ultime due settimane ci sono stati più casi che nei primi sei mesi della pandemia.
Più della metà dei nuovi casi è stata registrata proprio in India e Brasile.
In India c’è stato di recente un nuovo record di morti per Covid, che hanno toccato quota 3.780 in 24 ore. Ben 382.315 nuovi casi di Coronavirus nel subcontinente in un solo giorno.
L’India ha oggi 20.282.833 casi di Covid positivi confermati e sono 222.408 i decessi da inizio pandemia. Secondo una ricerca, le morti per Covid in India potrebbero raddoppiare rispetto ai livelli attuali nei prossimi mesi.
Continua senza sosta la “crisi dell’ossigeno” e fuori dagli ospedali, le famiglie dei pazienti che non riescono a trovare un letto fanno di tutto per accaparrarsi una bombola portatile, stando anche in coda per 12 ore… ma vi rendete conto?
La situazione è persino peggiore nei piccoli ospedali che non hanno serbatoi di stoccaggio e devono fare affidamento su grandi bombole.
E in Brasile?
Il Brasile ha il più alto numero di vittime al mondo da Covid dopo gli Stati Uniti e il terzo in totale di infezioni da Coronavirus dopo Stati Uniti e India. La situazione è completamente fuori controllo.
Il Paese sudamericano ha pochissime scorte di vaccini, tanto che diverse grandi città non sono state in grado di somministrare le seconde dosi. Alcuni reparti di terapia intensiva hanno esaurito l’ossigeno e persino i farmaci necessari per sedare i pazienti intubati.
Intanto, l’ex ministro della Salute brasiliano Luiz Henrique Mandetta ha dichiarato, nell’ambito di un‘inchiesta parlamentare sulla gestione della pandemia che ha ucciso più di 408mila brasiliani, che il governo del presidente Jair Bolsonaro “sapeva benissimo che il trattamento che stava sostenendo per i pazienti Covid non aveva alcuna base scientifica”.
E Mandetta è stato licenziato lo scorso aprile da Bolsonaro.
La tragedia sanitaria e umanitaria in Brasile, e l’indagine del Senato, arrivano 17 mesi prima delle elezioni, evidenziando tutte le falle e lo sciacallaggio mediatico esibito da Bolsonaro, che, negando le misure di distanziamento sociale e non sapendo gestire la questione vaccini, ha portato il Paese al collasso.
Intanto negli ultimi 3 giorni circa 2000 migranti sono partiti dal Nord Africa di cui oltre 1000 arrivati in Italia. A Lampedusa sono arrivati 683 migranti in un giorno mentre il più consistente sbarco ha visto arrivare ben 297 persone tutte insieme.
Arrivi anche in Sardegna: 10 algerini sono sbarcati nel Sud dell’isola e trasferiti nel centro di accoglienza di Monastir.
E tutto questo mentre il clima inesorabilmente cambia, razzi cinesi ci cascano addosso, adulti italiani non fanno figli e quei pochi giovani adolescenti depressi si tagliano con lamette per punirsi perché non all’altezza o pensano al suicidio perché la loro vita è inutile o addirittura perché bullizzati sui social da qualche FESSO…e loro ci credono!
… Allora non rimane altro che cantare tutti …
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