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“Ius soli” e “Ius sanguinis”

Quando si parla di appartenenza ad un popolo, significa entrare a far parte di una comunità ed acquisire la cittadinanza, cioè lo status di cittadino che consente l’esercizio dei propri diritti e doveri a ciascun membro della comunità.

Un breve tuffo nel passato delle due civiltà più grandi, quella greca e quella romana, per conoscere più da vicino cosa potesse significare essere cittadino greco e romano.

L’antica Roma ci ricorda che i Romani non conoscevano la differenza tra “ius soli” e “ius sanguinis” poiché la cittadinanza veniva determinata per discendenza.

Era cittadino romano colui che era nato da padre cittadino, ma doveva necessariamente essere stato procreato all’interno di un matrimonio legittimo.

Per cui la cittadinanza si acquisiva, quindi, per “ius sanguinis”: cittadini romani venivano considerati i figli legittimi di un cittadino, oppure quelli naturali di una cittadina.

I figli che nascevano da un “connubium” cioè da un matrimonio legittimo, seguivano la condizione paterna al momento del concepimento.

Coloro che nascevano fuori dal matrimonio, al momento della nascita seguivano la condizione materna.

Successivamente la cittadinanza fu estesa ad altre popolazioni e fu l’imperatore Caracalla nel 212 d.c. con la Constitutio Antoniniana a concedere la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero Romano.

Ma la paternità del concetto di cittadinanza spetta al mondo greco perché i cittadini della polis erano membri di una collettività e partecipavano al governo di questa.

Lo “iure sanguinis” era il principio della cittadinanza che qui vigeva e che teneva conto solo della discendenza paterna.

Bisogna arrivare a Pericle che, grazie ad una legge, riconobbe la cittadinanza solo a chi avesse sia il padre che la madre ateniese.

Nel nostro Paese ogni qualvolta si apre il dibattito politico sulla tematica della riforma della cittadinanza, inevitabilmente si accende una disputa tra i sostenitori dello “ius soli” e quelli dello “ius sanguinis”.

Cittadinanza italiana: diritto di suolo o diritto di sangue?

Essere cittadini di uno Stato è riconducibile solo al sangue, alla parentela oppure è una questione semplicemente legata al luogo in cui si nasce?

Lo “ius soli” indica l’acquisizione della cittadinanza per il fatto di nascere sul territorio di uno Stato indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori.

Lo “ius sanguinis” indica l’acquisizione di cittadinanza derivata dalla cittadinanza del genitore o con un ascendente in possesso della cittadinanza.

La cittadinanza italiana è attualmente trasmessa tramite lo “ius sanguinis”.

Perché “ius sanguinis”?

Perché è nel sangue che risiede la memoria di un popolo, la sua storia, tradizione, identità.

Appartenere ad una comunità, sottintende un legame stretto a qualcosa di intimo, di profondo.

Il sangue e il DNA identificano la vita di una intera civiltà.

A cosa potrebbe servire il concetto dello “ius sanguinis”?

Probabilmente a dare agli italiani quel senso di appartenenza nazionale che supera le divisioni territoriali.

Perché “ius soli”?

Il suolo si presenta come uno spazio aperto, senza limiti, confini, senza una precisa identità, uno spazio che tutti possono invadere e fare proprio.

E quale potrebbe essere un significato dello “ius soli”?

Probabilmente quello di creare le basi per una integrazione che non possa prescindere dal riconoscimento di una nuova cittadinanza.

Detto in questi termini sembrerebbe che lo “ius soli” abbia, infatti, esclusiva valenza di atto di civiltà.

Sarà davvero solo tale?

Sono tanti i quesiti a cui non è molto semplice dare una risposta.

Quindi, “ius soli” o “ius sanguinis”?

Forse, se lo chiedessimo a Darwin, risponderebbe che l’uno deriva dall’altro e che l’altro si consolida e si rafforza grazie a questa complementarietà.

Piera Messinese

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