“Io sono un uomo storico e non un delinquente qualunque perciò, bisogna darmi riguardo!”
Per lo Stato italiano era un feroce assassino, un demonio assetato di sangue. In realtà, quando ebbe inizio la sua epopea, era solo un ragazzo di appena 21 anni, con i sogni e le speranze dei giovani della sua età. Figlio di un oste, aveva grandi progetti per la sua vita e non certo quello di diventare: U rre di l’Asprumunti. Andiamo ai fatti.
La sera del 28 ottobre 1897, l’inverno non è ancora inoltrato nel piccolo borgo di S. Stefano ma fa freddo e qua e là, la neve ha già fatto la sua comparsa. Il borgo è un agglomerato di appena duemilacinquecento anime il cui primo sostentamento è rappresentato dalla vendita del legname.
Dopo il lavoro, chiusi nell’osteria del padre di Giuseppe, gli uomini giocano a carte, parlano a voce alta e ridono bevendo vino per riscaldarsi. In un tavolino più distante, siedono i fratelli Zoccali i quali, dopo aver bevuto vino in quantità, prendono di mira il giovane Musolino, offendendolo e denigrandolo davanti a tutti gli astanti.
L’offesa a questo punto, non può e non deve passare inosservata, in qualche modo va lavata. Così, all’interno dell’osteria, l’aria diventa densa, quasi irrespirabile ed è così che ha inizio la storia del brigante Musolino. I tre escono nella notte e sono calci, pugni, sproloqui e spunta anche un coltello dalle mani di uno dei due Zoccali, Vincenzo, che ferisce il ragazzo alle mani.
La neve si macchia di sangue. Dopo questo inusuale scambio di opinioni, i due fratelli si danno alla fuga. La voce di quanto è accaduto, si sparge velocemente nel borgo, così il giorno successivo, forse approfittando degli avvenimenti della sera prima, qualcuno decide di sparare a Vincenzo Zoccali, proprio il balordo che la sera prima aveva sfidato Giuseppe all’interno dell’osteria.
Due colpi di fucile in aperta campagna feriscono lo Zoccali che riesce però, a sfuggire all’agguato e a correre dai carabinieri. Porta con sé la prova della colpevolezza del Musolino, il suo berretto che il vero colpevole aveva volutamente lasciato sulla neve, con l’evidente scopo di sviare le indagini e far ricadere la colpa sul giovane.
E così, grazie a questa “inconfutabile prova”, i carabinieri si recano a casa sua per arrestarlo ma Peppe, forse avvertito da qualcuno, non c’è. Giuntagli la notizia del suo imminente arresto, è fuggito col preciso scopo di provare la propria innocenza. Bruciano i tagli alle mani, causati dal coltello di Zoccali ma più di tutto, gli brucia l’accusa ingiusta e infamante di un tentato omicidio.
Trascorre la latitanza in un borgo confinante con S. Stefano, il suo paese, presso parenti ed amici.
La guardia municipale si accorge della sua presenza in paese e corre subito ad avvisare i carabinieri. Peppe viene rintracciato e arrestato e condotto nelle carceri di Reggio Calabria, poi processato nel tribunale della stessa città, per il tentato omicidio del suo rivale. Il 24 dicembre del 1898, davanti alla Corte d’Assise, ascoltati i testimoni (falsi) e viste le prove a suo favore, il giudice ritiene che il giovane Musolino sia colpevole e lo condanna a 21 anni di pena detentiva, da scontare nel carcere di Gerace Marina (l’odierna Locri), questo nonostante il povero Peppe, si proclami disperatamente innocente.
Lo sventurato cade in una depressione profonda, mentre la causa del suo male, se la ride e lo sbeffeggia pubblicamente. Rinchiuso a Gerace, giorno dopo giorno, mese dopo mese, Peppe sempre più rabbioso, medita vendetta. Ogni giorno che nasce lo trova sempre più deciso a farsi giustizia da solo. Una notte gli compare in sogno S. Giuseppe che gli indica il punto più debole del muro della sua cella.
Il punto dove dovrà scavare per riavere la sua libertà, della quale è stato privato a causa delle menzogne altrui. Scava con tenacia, riuscendo a fare in modo che i secondini non si accorgano di nulla e finalmente, la notte del 9 gennaio del 1899, riesce ad evadere portando con sé altri tre detenuti: Antonio Filastò, Antonio Saraceno e Giuseppe Surace. Una volta fuori, le loro strade si separano.
Fa molto freddo ma Peppe, euforico per la libertà ritrovata, non lo avverte. A piedi risale le pendici aspromontane e si avvia deciso verso S. Stefano con un solo obiettivo, quello di ottenere giustizia. Da questo momento in avanti iniziano gli agguati, insegue i suoi nemici come un falco insegue la preda, chi lo ha tradito, dovrà pagare! Negli otto mesi della sua latitanza, commette ben cinque omicidi e quattro tentati omicidi, arrivando al punto di tentare di far esplodere la casa degli Zoccali con della dinamite.
Peppe Musolino è più veloce di un fulmine, più furbo di una volpe: corre di qua e di là, percorrendo l’Aspromonte sempre a piedi.
Trova rifugio dove capita, tra i boschi o dentro le caverne, anche in casa di amici e parenti che gli offrono un letto comodo e un pasto caldo, per rifocillarsi. Nel contempo, inizia la caccia al brigante e su di lui, viene posta una taglia di ben 5000 lire.
Musolino, nonostante tutto, riesce sempre a sfuggire ad ogni tentativo di cattura, quasi come un gatto selvatico. Il popolo si schiera dalla sua parte e Peppe diventa l’eroe gentile, pronto a farsi giustizia da solo, sfidando apertamente lo Stato. L’invincibile simbolo dei torti subiti dalla Calabria.
Molteplici sono i tentativi di catturarlo: tale Antonio Princi, tenta di drogarlo mescolando dell’oppio ad un piatto di pasta fumante ma il furbo Giuseppe, si accorge del tradimento e ferisce il Princi e poi uccide il carabiniere appostato in attesa, dietro ad una siepe.
Dopo questo gesto, invia una lettera ai giornali, indirizzata ai genitori del militare, dove si scusa per aver ucciso il milite. In sintesi dice: “Il carabiniere stava facendo solo il proprio dovere. Non mi piace spargere sangue innocente, vi chiedo perdono, ma non ho avuto scelta.”
Successivamente qualcuno gli fa credere che è possibile emigrare, salendo su una nave attraccata a Capo Bruzzano ma neanche questa volta, il brigante ci casca.
La stampa nazionale inizia ad interessarsi alla sua storia, pubblicandola a puntate come un romanzo. Il Times di Londra e Le Figaro di Parigi, rendono la sua storia quasi una leggenda. Le sue gesta diventato persino canzoni popolari. Il brigante Musolino diventa il giustiziere della terra di Calabria, colui il quale, combatte le ingiustizie perpetrate dallo Stato romano. Le continue fughe e i pedinamenti, gli agguati, lo hanno però, fiaccato.
È giunta l’ora per lui, di far perdere le tracce. Lo deve ai suoi amici, ai suoi familiari perseguitati e interrogati senza sosta, dagli uomini di Stato. È il 1901 quando decide di mettersi in viaggio, a piedi, per raggiungere il nuovo Re, Vittorio Emanuele III ed implorare la sua grazia. Il destino però decide di voltagli le spalle.
È solo un caso se due carabinieri lo catturano ad Acqualagna, in provincia di Urbino.
In realtà, i due militari, stavano facendo un giro di perlustrazione alla ricerca di alcuni malviventi locali. Alla loro vista, Musolino scappa, i due, insospettiti, lo inseguono, lui tenta di nascondersi tra i filari di un enorme vigneto.
I due lo raggiungono, Peppe inciampa in un filo e cade, ferendosi. I giornali danno notizia della cattura del Brigante d’Aspromonte, il 17 ottobre 1901, lo Stato ha vinto!
“Chiddu chi non potti n’esercitu, potti nu filu”
Dopo la cattura viene interrogato e il 22 ottobre dello stesso anno, trasferito nel carcere di Catanzaro. Per il suo trasferimento viene utilizzato un treno speciale e un tale dispiegamento di forze da far lievitare le spese a £ 500.000 (una cifra enorme per l’epoca), a cui vanno aggiunte le spese per lo spionaggio, le misure di pubblica sicurezza, arrivando alla cifra tonda di £ 1.000.000. nessuno è mai costato tanto allo Stato.
Il processo, di caratura nazionale, viene celebrato a Lucca: la prima udienza porta la data del 14 aprile 1902. In questa occasione, Musolino, rifiuta categoricamente di presentarsi in aula con la divisa da galeotto, non essendo un delinquente comune, chiede ed ottiene di indossare il suo abito buono, quello delle grandi occasioni.
Gli omicidi e la lunga latitanza, gli valgono una pena esemplare e l’11 luglio del 1902, si riaprono per lui le porte del carcere. La sentenza è quella dell’ergastolo e 8 anni di isolamento.
L’ennesima ingiustizia, gli toglie oltre alla libertà, anche la capacità di intendere e di volere. I lunghi anni di fuga, la paura, gli agguati, i sospetti lo hanno reso psicotico. Per lo Stato italiano, Peppe è solo uno spietato assassino da punire in maniere esemplare. Solo dopo 44 anni di detenzione, gli viene riconosciuta l’infermità mentale e trasferito nel manicomio di Reggio Calabria, dove morirà 10 anni dopo, il 22 gennaio 1956, alle ore 10,30.
Luisa Matera